Il 9 settembre il Congresso statunitense si riunirà per discutere dell’intervento in Siria. Il presidente Barack Obama si attende entro il 15 un via libera per lanciare al momento opportuno l’azione punitiva nei confronti del presidente siriano Assad e del suo regime. L’interventismo di Obama si basa su una serie di presupposti.
Il presidente statunitense ritiene il regime siriano pienamente responsabile dell’impiego di agenti chimici durante le operazioni. Basandosi anche su intercettazioni telefoniche, Obama è altrettanto certo dell’estraneità delle fazioni ribelli.
In aggiunta, il presidente è sicuro che da qui al voto al Congresso l’amministrazione statunitense riuscirà a convincere un numero di parlamentari tale da garantirgli un voto favorevole.
Obama è anche convinto che l’azione militare, anche se limitata nel tempo e nei mezzi impiegati, avrà effetti decisivi non certo sull’esito della guerra civile, ma per convincere Assad che nelle operazioni in corso ci sono limiti che non gli è consentito superare.
Infine, il presidente si aspetta che Russia e Iran si limitino a protestare, e che non ci saranno incidenti né contraccolpi destabilizzanti a livello regionale, in paesi esposti come Libano, Giordania e Israele.
Dubbi leciti
Queste convinzioni di Obama meritano però di essere esaminate alla luce di alcune questioni non trascurabili.
La storia, anche quella più recente, ci insegna che occorre essere assai prudenti nell’attribuzione di responsabilità. Uno degli eventi determinanti per l’avvio delle operazioni aeree contro Belgrado fu l’eccidio di Racak del ’99. Anche in quel caso l’ambasciatore statunitense William Walker non aveva dubbi, tant’è che cercò di convincere la patologa finlandese Hilena Ranta, incaricata delle indagini forensi a apportare qualche modifica al suo rapporto (mai reso pubblico nella sua interezza). Dubbi erano però legittimi, dal momento che la strage di Racak venne stralciata dai capi d’accusa nel processo di Slobodan Milosevic davanti al tribunale internazionale.
Anche la scommessa di Obama sul sostegno del Congresso merita una riflessione. In un sistema istituzionale come quello britannico, la sconfessione del premier David Cameron da parte del Parlamento ha fortemente indebolito il suo governo.
Quali potrebbero essere le conseguenze negli Stati Uniti nel caso di un voto contrario da parte del Congresso? Obama ne uscirebbe con una credibilità fortemente, forse irrimediabilmente, compromessa e gli equilibri strategici sarebbero rimessi in discussione, con conseguenze di grande portata proprio per un’Unione Europea, incapace di darsi una politica estera comune e di fare progressi sulla strada dell’integrazione delle capacità militari.
Inoltre, ci sono voluti mesi di incessanti bombardamenti per convincere Milosevic ad accettare di sedersi ad un tavolo negoziale: basteranno una cinquantina di missili da crociera Tomahawk per indurre Assad ad un impiego della forza più coerente con le norme umanitarie internazionali?
È lecito dubitarne, anche nel caso in cui la difesa aerea siriana si riveli del tutto impotente. Qualora invece i sistemi antiaerei di Assad, alcuni dei quali ben più moderni di quelli serbi, dimostrassero una certa efficacia, sarebbe difficile evitare l’avvio di una campagna di neutralizzazione delle difese aree (Suppression of enemy air defence, Sead), con un prolungamento delle operazioni e i conseguenti rischi, sia sul piano politico che su quello prettamente militare.
Da Mosca a Teheran
Passando alle relazioni con le altre potenze, se è ragionevole attendersi reazioni vibranti, ma limitate al piano diplomatico, da parte di Mosca (ma a quel punto il raffreddamento dei rapporti sarà difficile da recuperare), non si può escludere una più concreta reazione da parte di Teheran.
Si pensi allo stretto di Hormuz, dove non è difficile impedire, o quanto meno rallentare, il transito di risorse energetiche globali con conseguenze facilmente immaginabili sulla disponibilità di energia per Europa e Cina. Verrebbe anche meno qualsiasi speranza di una maggiore disponibilità al dialogo dei nuovi vertici iraniani, con ulteriori tensioni nell’area.
Il conflitto siriano non è purtroppo puramente interno: si tratta anche di una fase virulenta di una disputa regionale che, oltre all’Iran, coinvolge anche Arabia Saudita e i suoi satelliti/alleati. Tra i coinvolti c’è anche la Turchia.
Un eventuale allargamento del conflitto rischia di frantumare i fragili equilibri in Giordania e soprattutto in Libano. Il Paese dei cedri è separato da Israele dalla missione dell’ Onu (Unifil), dove operano un migliaio di militari Italiani, immersi in un ambiente locale controllato dalle milizie di Hezbollah, alimentato dall’Iran e schierato con Assad. È una polveriera pronta a deflagrare.
Con la richiesta di una luce verde all’attacco da parte del Congresso Obama si è bruciato i ponti alle spalle, pur sapendo che tra gli alleati solo il presidente francese François Hollande è pronto a seguirlo.
Un po’ poco per parlare di una coalizione di volenterosi. Specie se si pensa a un prolungamento delle operazioni oltre all’attacco limitato, per non parlare di un eventuale avvio di operazioni di terra. E questo il Pentagono lo sa benissimo.
Vincenzo Camporini, già Capo di Stato Maggiore della Difesa, è vicepresidente dello IAI.