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Perché Papa Francesco dice basta al titolo di monsignore

Basta con i monsignori. Dallo scorso aprile, infatti, la Segreteria di stato non autorizza più questi titoli. In parrocchia, insomma, il prete dovrà accontentarsi di essere semplicemente “don”. Ne ha dato notizia giovedì scorso Il Messaggero, ma già un mese dopo l’elezione di Francesco, il settimanale The Tablet aveva rivelato il cambiamento.

Scelta del Papa, a quanto pare, che nel corso di una riunione con i vertici della segreteria di stato, aveva dato disposizioni di congelare l’assegnazione del titolo di monsignore “almeno fino a ottobre”, cioè al momento in cui si riuniranno gli otto cardinali incaricati di studiare la riforma della curia romana.

L’unica eccezione all’ordine di Francesco riguarda i sacerdoti inquadrati nel servizio diplomatico della Santa Sede. Non è chiaro, però, il provvedimento sarà davvero provvisorio. Corre voce, infatti, che il Pontefice miri a ridurre drasticamente il numero dei beneficiari dell’onorificenza, peraltro già data con maggiore parsimonia dopo il Concilio Vaticano II.

Essere pastori in mezzo al gregge
Non è una decisione che riguarda la riforma della macchina governativa vaticana, ma è comunque un ulteriore passo verso quel cambiamento spirituale della chiesa che Francesco ha avviato appena dopo l’elezione. Una chiesa povera e per i poveri, semplice e soprattutto umile. Una chiesa dove il carrierismo non deve trovare posto, ma che invece deve spingere i propri pastori a stare in mezzo al gregge, odorando le proprie pecore. Tante volte, Bergoglio, ha usato tali metafore per indicare la marcia che vuole imprimere alla chiesa del domani. Lo fece già nell’omelia della solenne messa del Crisma, nel triduo pasquale, quando parlò del “buon sacerdote [che] si riconosce da come viene unto il suo popolo. Quando la nostra gente viene unta con olio di gioia lo si nota: per esempio, quando esce dalla Messa con il volto di chi ha ricevuto una buona notizia. La nostra gente gradisce il Vangelo predicato con l’unzione, gradisce quando il Vangelo che predichiamo giunge alla sua vita quotidiana, quando illumina le situazioni limite, “le periferie” dove il popolo fedele è più esposto all’invasione di quanti vogliono saccheggiare la sua fede. La gente ci ringrazia perché sente che abbiamo pregato con le realtà della sua vita di ogni giorno, le sue pene e le sue gioie, le sue angustie e le sue speranze”. Ce l’aveva, Papa Francesco, con il “prete triste”, che non esce da sé stesso, che non sperimenta l’unzione.

No ai trionfalismi nella chiesa
Ancora più chiaro circa l’idea di chiesa che ha in mente, Bergoglio lo è stato l’altra mattina a Santa Marta, nella consueta messa mattutina. Se l’è presa con i cristiani che “non sanno la parola “trionfo”, soltanto dicono “trionfalismo”, perché hanno come un complesso di inferiorità e vogliono fare… Quando noi guardiamo questi cristiani, con tanti atteggiamenti trionfalistici, nella loro vita, nei loro discorsi e nelle loro pastorale, nella Liturgia, tante cose così, è perché nel più intimo non credono profondamente nel Risorto”. Insomma, il Papa vuole che la sua chiesa sia chiesa di popolo, con parroci che lascino perdere trionfalismi e onorificenze e si concentrino sulla propria gente. Che escano dalle canoniche ed evitino “di metterei bigodini alle pecore”.

Troppe porpore per l’Italia
Il primo a uniformarsi al nuovo corso sui monsignori è stato il Patriarca di Venezia, Francesco Moraglia. Il presule ha fatto sapere – rivela Franca Giansoldati sul Messaggero – ai suoi sacerdoti che il titolo di monsignore sarebbe d’ora in poi stato assegnato solo a coloro che hanno ricevuto un’onorificenza direttamente dal Papa. La novità si inserisce in un percorso avviato da mesi, ma che in futuro potrebbe serbare ulteriori sorprese. Non è un mistero che in Vaticano si discuta da anni della necessità di rivedere i criteri d’assegnazione delle porpore cardinalizie. In particolare, si fa notare che troppi sono i cardinali italiani, non solo tra le file curiali. Attualmente, nel nostro Paese ci sono ben sette sedi cosiddette cardinalizie (Milano, Venezia, Torino, Genova, Napoli, Palermo, Firenze), senza contare che i porporati curiali italiani svettano per numero. Troppo, si dice. E anche Francesco sarebbe dello stesso parere. Non a caso, nel corso della professione di fede con i vescovi della CEI guidati da Angelo Bagnasco che si è svolta lo scorso maggio in San Pietro, il Papa ha sollecitato una riduzione del numero delle diocesi italiane. Sono troppe, ha detto Francesco. La questione è nota da tempo, e varie commissioni si sono alternate alla ricerca di un compromesso tra le esigenze organizzative (e spesso anche finanziarie) e quelle di non creare malumori tra clero e fedeli. Fino a oggi, poco è stato fatto su questo fronte. Forse, l’impulso del Papa che scrive lettere ai giornali e telefona direttamente a casa dei fedeli, potrà essere decisivo.

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