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Siria, ecco come evitare la guerra (mondiale)

Dietro le tremende immagini di sofferenza e distruzione della guerra in Siria si nasconde lo scontro tra fazioni di guerrieri teisti e settari mischiati a bande criminali transnazionali, sbandati delle varie guerre che da 12 anni hanno sconvolto l’Asia Minore e il Medio Oriente, e il clan alawita che governa da 40 anni la Siria anche grazie alla connivenza delle grandi potenze. A questi si aggiungono i paesi della regione che, sulle spoglie di un’ormai agonizzante pax americana, tentano di relativizzare il loro pesante declino interno.

Gli effetti più perniciosi provengono dall’Arabia Saudita che, terrorizzata dal restare orfana della protezione americana che l’accompagnava dal 1945, rischia di essere travolta da se stessa perché ormai incapace di rigenerare una leadership credibile, razionale e sostenibile. L’esaltazione di onnipotenza del principe Bandar bin Sultan rischiano di essere l’epilogo della casa regnante dei Saud. Dopo l’eliminazione di qualsiasi forma di espressione politica modernizzatrice in Nord Africa e nella penisola arabica, l’acquisizione del turco Erdogan è stata funzionale per distruggere la Siria che è l’ultimo tassello prima di realizzare il dominio sunnita/wahaabita dal levante al ponente.

Forte di questa sua convinzione il principe Bandar si è recato a Mosca. Agitando lo spettro di una rinnovata offensiva islamista in Cecenia, il principe credeva di intimorire Putin che avrebbe dovuto cedere sulla Siria (e l’Iran). Così non è stato. Infatti, avuta conferma del bluff americano (il “reset”) la Russia ha lanciato un’imponente offensiva politico diplomatica contro gli americani e i loro vassalli regionali, rinsaldando, almeno tatticamente, l’alleanza Mosca-Teheran-Damasco. Forte del sostegno dei paesi BRICS e dello SCO, l’impatto dell’offensiva russa è stato dirompente per un Occidente già poco convinto di seguire gli USA in un’ulteriore campagna militare in Asia Minore.

Che le armi chimiche debbano essere messe in sicurezza è indubbio, ma il loro uso non giustifica da solo un intervento unilaterale militare con confusi obiettivi strategici. D’altra parte, a fronte di un numero imprecisato di morti causati da armi chimiche (da 300 a 1429 secondo le fonti), più di centomila morti civili e milioni di sfollati sono stati causati in Siria in due anni di uso di armi convenzionali. Ad eccezione della Francia che aveva sollecitato un intervento militare “umanitario” a sostegno dell’esercito libero siriano (i ribelli anti Assad della prima ora), nessun’altra potenza o organizzazione internazionale ha raccolto tale invito con serietà. Quindi, è lecito sospettare che la “linea rossa” nascondesse ben altri obiettivi strategici: la cesura dell’arco sciita che da Teheran raggiunge gli Hezbollah in Libano, oppure la facilitazione dei piani del principe Bandar?

In entrambi i casi, l’obiettivo di un intervento armato contro il governo siriano avrebbe permesso un’ulteriore espansione del fondamentalismo islamico sunnita che è già stato capace di provocare interventi militari americani nel 2001 e nel 2003, alterando i già difficili rapporti strategici globali. Proprio questo è il motivo della reazione russa. Infatti, l’alleanza Mosca-Teheran-Damasco è il contraltare a quella Washington-Tel Aviv-Ryad. È su questo punto strategico fondamentale che gli USA si sono trovati spiazzati diplomaticamente e militarmente. Una guerra “punitiva” lampo stava rischiando di diventare di ben più ampie proporzioni e dagli esiti molto incerti.

Questo spiega la prudentissima diplomazia dell’Iran di Rouhani, le parole forti di Papa Francesco, l’ammonizione del Segretario generale dell’ONU di rispettare il diritto internazionale, ed anche la posizione diplomatica che il ministro Bonino ha da subito impostato nel “nessuna partecipazione italiana senza decisione dell’ONU”. Finanche Israele si sta attenendo ad una posizione, probabilmente suggerita dalla Russia, di prudente tatticismo che, per ora, non richiede l’intervento americano a sua difesa.

Invece, l’isteria interventista francese e britannica non sembra che un malcelato tentativo neocoloniale per redimersi dal senso di colpa per le conseguenze dell’accordo segreto franco-britannico del 1916 (Sykes-Picot) che la Russia bolscevica rese subito noto agli arabi traditi nella loro aspirazione all’autodeterminazione. Con la potenza americana fortemente relativizzata, mentre l’Unione Europea si sublima in un laicismo protocollare privo di effetti geopolitici, per la prima volta, la Cina ha manifestato, seppur simbolicamente, la propria presenza militare nel Mediterraneo.

L’accanimento feroce di tutti gli attori per distruggere la Siria si comprende meglio ricordando che essa fu la pietra miliare del sistema coloniale e post coloniale in Medio Oriente e Asia Minore. Infatti, la Siria fu il più grande stato arabo post-ottomano (Regno di Siria e Iraq) che poi guadagnò l’indipendenza nel 1946 con un progetto politico e sociale di laicità repubblicana.

Il risentimento e la sfiducia sia degli arabi sia dei persiani nei confronti delle ex potenze coloniali europee è comprensibile ed è stato aggravato dalle attività geostrategiche dell’alleato americano. Invece, la Russia, proprio per ragioni storiche, riesce a ritagliarsi ancora uno spazio di credibilità negoziale che, benché molto labile con i sunniti del Golfo, allontana l’immediatezza di un nuovo intervento militare occidentale nella regione. Infine, non va dimenticato il patrimonio di relazioni che l’Italia e la Santa Sede hanno saputo tessere nei decenni passati e che, da Papa Giovanni Paolo II a Papa Francesco, sono state testimoniate da impressionanti atti di dialogo politico e interconfessionale.

È in questo contesto che dobbiamo cercare di leggere la delicatissima situazione odierna.

In base al mondo che dagli anni ’90 sta finendo, Damasco, Teheran e Mosca sono alleati. Sempre in base a quel mondo agonizzante, l’Occidente usa le solite carte del sostegno (e esportazione) della democrazia combinate all’uso della forza, che tra il 1989 e il 2013 si immaginava potesse essere unilaterale (perché fondata su quella orrenda visione della guerra giusta e, ahimè, umanitaria, che finalmente Papa Francesco ha abbandonato, condannandola). La cerniera tra vecchio e nuovo mondo scricchiola vistosamente dal 2001 e gli Imperi occidentali (USA; UK; Francia) incontrano sempre maggiori difficoltà a garantire la coesione interna ed esterna. In fin dei conti la “guerra al terrore” era un tentativo disperato di rinsaldare l’Occidente in frantumi, usando il solito metodo dell’enfatizzazione del comune nemico esterno. Tuttavia, mentre l’Occidente si è prodotto in enormi (e infruttuose) azioni militari contro un nemico impalpabile, ubiquo e mutante, il resto del mondo (i 2/3 del pianeta) hanno continuato il percorso sia di consolidamento strutturale (BRICS) sia ideologico (principalmente attorno a fanatismi religiosi e settari).

La Siria è oggi il terreno tattico su cui si sta giocando la partita per la cesura tra il vecchio mondo e quello nuovo. I paesi con antiche e profonde radici culturali lo sanno bene. Per questo, la nuova leadership iraniana, pur non facendo mancare retoricamente il sostegno agli antichi amici, agisce con estrema prudenza e pragmatismo. Iran e Russia hanno la comune percezione che il loro nemico non è l’America e lo stato ebraico, ma la pericolosa deriva ultrateista che si sta consumando all’interno delle fedi sunnite che sono ramificate a livello globale (a questo proposito è molto interessante la posizione di due enormi paesi, Pakistan e Indonesia, che in qualche modo prendono le distanze dai sunniti del Golfo). Anche la Cina percepisce questo stesso pericoloso slittamento sunnita.

Le chiavi per la soluzione delle crisi attuali si trovano in Arabia Saudita, Yemen e Egitto (paesi dove l’influenza militare e politica degli USA dovrebbe essere al più presto esercitata per riprendere il cammino verso la modernità).

Come nel Medio Evo l’offensiva islamica provocò la nascita dell’Occidente, oggi la nuova offensiva teista sunnita potrebbe far emergere il nuovo Occidente in Oriente (Brics Cable e Banca di Sviluppo, sono i primi vagiti) mentre il vecchio Occidente cristiano (Russia inclusa) ancora non riesce a trovare un nuovo modello sostenibile. A questo proposito, il contributo rivoluzionario di Papa Francesco non deve essere sottovalutato. La Cina è ben cosciente che lo strumento di governo mondiale non potrà che fondarsi su un approccio etico, senza il quale nessuna crescita sarà sostenibile.

Il ponte che collega Roma a Pechino è l’ultimo rimasto per evitare la fine definitiva dell’Occidente. Intanto, evitiamo relativismi culturali che giustificano la guerra e lavoriamo per un dialogo tra gli uomini di buona volontà.

Paolo Raffone, direttore del blog Strat-Eu e della Fondazione CIPI a Bruxelles



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