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Come l’America si interroga sulla guerra in Siria

Essere il presidente degli Stati Uniti d’America può essere un compito piuttosto gravoso. Deve averlo compreso bene Barack Obama, chiamato a convincere il Congresso sull’opportunità e l’importanza di un intervento bellico in Siria.

LA POSTA IN GIOCO
Un compito reso ancor più arduo dalla posta in gioco. Nelle scorse settimane l’Amministrazione Usa aveva temporeggiato, ritenendo doveroso attendere l’opinione delle Nazioni Unite in merito all’attacco con armi chimiche che aveva colpito la zona di Damasco il 21 agosto. Se confermato, l’uso del Sarin sarebbe stato una palese violazione degli accordi internazionali e una sfida diretta all’autorità statunitense, che proprio attraverso le parole di Obama aveva stabilito nell’utilizzo di agenti neurotossici la “red line” che il dittatore siriano Bashar al-Assad non avrebbe mai dovuto superare.

Ma la Casa Bianca aveva ritenuto da subito intempestivo l’intervento dell’Onu, i cui ispettori si erano messi al lavoro troppo tardi e con metodi e mezzi adatti a identificare solo l’avvenuto uso di armi chimiche, ma non se questi attacchi fossero provenuti da Assad o dai ribelli, tra i quali da tempo si è infiltrata la componente qaedista di Al Nusra.

Gli Stati Uniti invece non hanno avuto dubbi: i missili col sarin sono partiti da zone controllate dall’esercito e a testimoniarlo ci sarebbe un rapporto di intelligence che il segretario di Stato John Kerry ha presentato alla stampa in una versione declassificata durante una conferenza tenutasi il 30 agosto nella Treaty Room.

Prove davanti alle quali Obama, parlando il giorno seguente dal Giardino delle Rose della White House, aveva dovuto celermente spiegare che gli Stati Uniti “devono intervenire militarmente” in Siria e che lui è “pronto a dare l’ordine dell’attacco“, ma in quanto leader di un paese democratico vuole “cercare l’autorizzazione dai rappresentanti del popolo americano subito dopo la pausa estiva“. L’attacco con le armi chimiche compiuto dal regime di Damasco, aveva aggiunto, “è contro la dignità umana e contro la sicurezza nazionale” e “quella dei paesi alleati” ed è “minaccia deve essere affrontata“, aveva concluso, lasciando intendere la volontà di un’azione bellica a prescindere.

LE RAGIONI DI UNA GUERRA
Il presidente, rivolgendosi proprio agli americani e ai politici “stanchi della guerra“, ha poi spiegato che nelle sue intenzioni non ci sono “un nuovo Iraq o Afghanistan, ma un attacco “mirato, senza truppe di terra, azioni mirate e limitate nello scopo e nel risultato“.

Anche se non ci sono opzioni facili – aveva concluso Obama chiamando la classe dirigente americana alle sue responsabilità – la nostra sicurezza e i nostri valori ci chiedono di non far finta di non vedere. Io sono pronto ad agire per far fronte a queste violenze“.

UNA SCELTA GIUSTA
E malgrado le giuste motivazioni e l’esito incerto del voto al Congresso, sono in molti a ritenere giusta la scelta del Commander in Chief di privilegiare il dibattito a una decisione unilaterale. In un editoriale a firma dell’intero board, il progressista New York Times sottolinea come al presidente americano ora tocchi spiegare in modo accurato come vuole gestire un conflitto che, se non dovesse verificarsi, segnerebbe una pericolosa caduta di credibilità per gli Stati Uniti d’America.

IL DIBATTITO AMERICANO
Intanto il dibattito non si arresta negli Usa. Secondo il Washington Post, Obama dovrà superare numerosi ostacoli per fare approvare al Congresso un attacco militare contro la Siria. Il quotidiano della capitale spiega come lo scetticismo nei confronti di un’impresa bellica in Medio Oriente sia diffuso e trasversale fra deputati e senatori sia repubblicani che democratici.

Ben 83 parlamentari sono stati sottoposti a un briefing segreto di due ore e mezza, e sono dovuti rientrare d’urgenza a Washington non soltanto prima della riapertura del Congresso dopo la pausa estiva (prevista per il 9 settembre), ma nel bel mezzo di uno dei “ponti” più popolari dell’anno: il Labor Day.
La maggior parte ritiene che l’amministrazione abbia presentato prove convincenti del fatto che il regime di Bashar al-Assad abbia usato armi chimiche, ma restano pesanti dubbi sull’effetto deterrente reale che un’azione militare Usa potrebbe avere, col rischio di trascinare gli Stati Uniti in una guerra più lunga e logorante.

A complicare le cose, in un Congresso ormai fortemente polarizzato, c’è il fatto che sia fra i democratici che fra i repubblicani ci sono ampie fette di parlamentari contrari all’intervento, fatto che rompe i tradizionali allineamenti politici rendendo l’esito di un voto assai più incerto. Inoltre, alcuni possibili alleati di Obama, come l’ex rivale repubblicano nella corsa alla Casa Bianca John McCain, vorrebbero invece un intervento più massiccio di quello ipotizzato dal governo. Sul tutto incombe anche un’altro scontro politico che andrà in scena a Capitol Hill in autunno, quello sull’aumento del tetto del debito Usa.

Per ora l’obiettivo di coloro che sostengono la risoluzione dell’amministrazione è fare in modo che questa sia riscritta in modo più chiaro e dettagliato. Al momento, hanno osservato molti parlamentari confidandosi col WP, è troppo generica: appena un foglio, senza precisare il tipo di azione militare né la sua durata.

LA MORAL SUASION DI OBAMA
Intanto è già entrata nel vivo la campagna di pressione lanciata da Obama per convincere i parlamentari scettici, con gli interventi del segretario di Stato John Kerry, del segretario alla Difesa, Chuck Hagel, e del capo degli Stati maggiori unificati delle Forze armate degli Usa, Martin Dempsey, che prima terranno un’audizione in Senato e poi proveranno a convincere i 18 senatori della commissione degli Affari esteri soffermandosi sui rischi di una perdita di credibilità degli Stati Uniti nel panorama internazionale, in particolare in merito al dossier nucleare iraniano.

Il presidente americano, invece, prima di partire per la Svezia questa sera, ha invitato inoltre i responsabili delle commissioni-chiave del Congresso ad andare questa mattina alla Casa Bianca, dove tenterà di “vendere” l’intervento siriano in nome dell’interesse nazionale.

IL RAPPORTO CON LA RUSSIA
E proprio sull’evocazione dell’asse tra Teheran e la Russia sembra muoversi la moral suasion di Obama, che coglie nel problematico rapporto americano con il Cremlino, acuito dal recente caso Snowden, la causa scatenante ma anche l’unica speranza di porre fine alla crisi siriana.



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