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Vi spiego il fallimento del Pd

Grazie all’autorizzazione dell’editore, pubblichiamo il commento di Gianfranco Morra apparso sul quotidiano Italia Oggi diretto da Pierluigi Magnaschi.

Quando, nel 1992, arrivò lo tsunami «mani pulite», tutti i partiti furono travolti, meno uno. Che non aveva certo meno colpe degli altri. Nei vent’anni che ci separano da quella data, il Pci ha cercato di trasformarsi, ma senza avere raggiunto una identità coerente e convincente.
Anzi: i pochi sussurri e le molte grida della Assemblea del Pd di sabato-domenica scorsi lo hanno mostrato. Quando si chiamava Pci, era un perfetto quadrato delimitato da lati solidi e definiti. Oggi li ha perduti.

Il primo lato era l’ideologia: il marxismo leninismo nella versione del «Lenin italiano» Antonio Gramsci. Un insieme, dogmatico ma pur sempre coerente e fascinoso, obbligatorio per tutti, altrimenti si veniva espulsi per «indegnità morale e politica». Inevitabile oggi l’oblio: Marx è un notevole pensatore, ma la sua analisi è stata superata dai fatti. Le sue proposte ricordano quelle di Alice nel paese delle meraviglie.
Il secondo lato era politico: una radicale alternativa alla società borghese e al capitalismo, da realizzare con una «guerra di posizione», cioè impadronendosi della società civile. Il Pci riuscì a imporre un pensiero unico nella cultura e nella scuola. Ma per poco. Si trattava di una proposta irrealizzabile, anzi controproducente. Come mostrò l’improvviso sfacelo di tutto il mondo comunista europeo. Il Pci non poteva che adeguarsi e riporre le divise.

Il terzo lato era etico: un autentica volontà di eguaglianza e liberazione, nel solco delle grandi lotte operaie del passato. Le ingiustizie non erano state inventate da Marx, erano nella storia e dovevano essere eliminate o almeno fortemente ridotte. Di ragioni non ne mancavano certo. E i risultati non sono mancati.
Il quarto lato era economico: la fuoruscita dal capitalismo, ossia la creazione di un sistema centralista, gestito da una pianificazione statale. Certo, in forme adeguate all’Italia, ma pur sempre negativo: tutti i paesi dell’ex-socialismo reale sono ancor oggi in difficili condizioni economiche. Il comunismo non cancellava solo la libertà, ma anche il benessere.
Non è difficile accorgersi che quelle muraglie invalicabili contro la libertà e la produttività sono state demolite, ma non ancora sostituite. Insistere a chiamarli «comunisti» è ridicolo. Il Pd è un poligono senza lati, una macedonia indefinibile, un chiassoso zibaldone. Ma nuovi muri capaci di delimitare il quadrato non se ne vedono. C’è però qualcosa che resiste: l’organizzazione burocratica e centralista, incapace di cogliere le novità del momento attuale, il primato degli audiovisivi e, di conseguenza, del leader carismatico.

L’ideologia tace e si è quasi estinta. Il Pd comprende in sé una maggioranza di postcomunisti, una minoranza di postcattocomunisti e altre piccole frange. Ma tutte le ideologie sono ormai confinate nei sotterranei della biblioteca. Nessuno parla più di idee e di progetti generali, ma offre solo risposte alle domande effimere del momento. Si dirà che è quanto avviene, più o meno, in ogni altro partito. Ma la mancanza di una ideologia comune, unita al rifiuto di quel leader-dux che altrove unisce, sia pure in un calcolato populismo, rende difficile l’unità del partito.

La politica vaga come le stelle dell’Orsa, non è più comunista, non è liberale, non è socialista. Ed è un po’ tutte queste cose, una macedonia di frutti, battezzata «cool», che non indica tanto pacatezza e moderazione, quanto piuttosto indecisione e pasticcio. Non a caso il modello privilegiato è Obama, nel quale la retorica umanitaria non riesce a nascondere la debolezza, né a impedirgli cattive figure (vedi Siria).

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