Il ddl sul riordino dei porti italiani? Bocciato da Italia Aperta, il pensatoio-aggregatore di liberali coordinato dall’ex senatore Enrico Musso, economista e co-fondato dall’economista Alessandro De Nicola, che dedica alla materia una delle sue pagelle: un modo di monitorare e seguire le politiche nazionali, regionali, provinciali e comunali assegnando un voto.
Dopo la pagella sul decreto Imu, è la volta dei porti. La Commissione Lavori pubblici e comunicazione del Senato ha elaborato il disegno di legge di riordino sui porti commerciali (ddl n. 370, 3.4.2013; riforma della legge n. 84 del 1994). Ma la bozza presenterebbe alcune criticità, come la durata e modalità di estensione delle concessioni o l’obbligo per le imprese che operano nei porti di svolgere operazioni portuali e servizi con personale dipendente dedicato in esclusiva per ogni singolo porto.
Una riforma incompiuta
La maggiore criticità del ddl sta nel fatto che verrebbe limitata la libertà di impresa e di utilizzo, nell’attività aziendale, della forza-lavoro dedicata, “prevedendone l’utilizzo in un singolo porto anche per imprese che operano su più porti, e non consentendo forme contrattuali, quali lavoro temporaneo e/o distaccamento”. Che invece potrebbero essere funzionali ad una diversa e più efficace conduzione aziendale. “Il legislatore – secondo la pagella di Italia Aperta – ha perso l’occasione per mettere mano ad un riordino della normativa sul demanio marittimo, almeno per quanto riguarda i porti commerciali e la loro destinazione, in un’ottica di privatizzazione, e quindi di valorizzazione, delle aree portuali. Il quadro complessivo continua a vedere un’elevata frammentazione delle competenze tra Autorità, Capitaneria di Porto, Ufficio della Dogana, strutture Sanitarie”.
Punti deboli
Quattro gli aspetti negativi della bozza di riforma, secondo l’associazione liberale Italia Aperta:
1) La mancata autonomia finanziaria. Il vero vantaggio di questa misura, auspicata da tutto il mondo dei trasporti marittimi, non è solo l’opportunità contingente di sbloccare i finanziamenti per investimenti portuali, fermi da anni, ma il fatto che, anche a parità di finanziamenti complessivi, il meccanismo dell’autonomia finanziaria permetterebbe di averli allocati sui porti più efficienti che generano maggiore traffico, e costringerebbe comunque tutti i porti a concentrare le proprie risorse sui progetti di investimento più redditizi;
2) Il lavoro portuale rimane soggetto a eccessive restrizioni. La riforma del 1994 ha privatizzato la gestione dei terminali consentendo alle imprese di assumere manodopera propria. Ma la manodopera per i picchi di traffico (strutturali nell’industria portuale) resta per legge appannaggio esclusivo delle compagnie e gruppi portuali che prima del 1994 godevano della riserva del lavoro in regime di monopolio per tutto il lavoro portuale;
3) La durata delle concessioni dei terminal è molto lunga (di norma una trentina d’anni) al fine di consentire l’ammortamento di investimenti molto rilevanti (anche se vi sarebbero altri strumenti tecnici per consentirne il recupero in caso di trasferimento ad altro gestore a seguito di gara). Inoltre non si è mai applicata una revoca di concessione;
4) Il Comitato portuale (il Consiglio di amministrazione dell’Autorità portuale) è un organo formato da rappresentanti delle diverse categorie, quasi tutti in potenziale conflitto d’interesse con l’autorità portuale oltre che con i potenziali “nuovi entranti” e concorrenti esterni. A tutto vantaggio degli operatori attualmente concessionari di tutte le categorie di operatori portuali.
L’analisi di Musso
Secondo l’ex senatore liberale ed economista che coordina Italia Aperta, sarebbe utile poter procedere anche per decreto, se il Parlamento non dovesse giungere ad una conclusione. Vi sono misure urgenti, come quella dell’autonomia finanziaria di cui si parla da anni “che nei fatti è una mossa che diventerebbe l’unica maniera per convogliare sui porti investimenti significativi”. L’aspetto virtuoso sarebbe quello di far operare gli investimenti in una logica di redditività, in quanto “ogni porto aveva l’interesse a selezionare il meglio per se stesso in modo tale da generare ulteriore gettito”. Secondo punto strategico l’esigenza di maggiori liberalizzazioni “rispetto alle concessioni dei terminali, sia rispetto alle varie partite del lavoro portuale”.
Conclusione
Insomma, quello italiano è un sistema portuale ancora “molto bloccato e troppo protetto”, conclude il coordinatore di Italia Aperta, con i porti italiani che non concorrono solo con quelli continentali ma anche con quelli vicini e della sponda nordafricana mediterranea. Ragion per cui l’obiettivo delle pagelle dell’associazione è quello di “avere un occhio di riguardo alle aperture dei mercati e dell’economia, perché crediamo – conclude Musso – che la concorrenza come metodo promuova la migliore qualità, il metodo e l’efficienza”.