Alcuni giorni orsono il senatore Massimo Mucchetti (Pd) sull’Unità ha espresso con grande finezza tecnica e argomentativa le ragioni che consiglierebbero al governo di intervenire perché venga riconsiderata a fondo l’intera operazione sulla Telecom, della quale comunque si è deciso di difendere l’italianità della rete.
E con eguale finezza argomentativa si potrebbe a mio avviso invitare l’esecutivo a ripensare a fondo le altre operazioni di privatizzazione che si vorrebbero portare innanzi. Ora è bene essere molto chiari a riguardo: l’Italia deve difendere e rafforzare il suo profilo di grande Paese industriale che resta la seconda manifattura europea e fra le prime dieci al mondo.
Le nostre grandi aziende ancora a controllo pubblico – molte delle quali peraltro già quotate da anni – stanno svolgendo il loro compito sullo scenario internazionale, assicurando anche, quando possibile, buoni dividendi all’azionista pubblico e a quelli privati, là dove presenti. Qualche settore – come ad esempio quello della costruzione di materiale rotabile – ha rivelato sinora forti criticità e andrebbe pure spiegato (finalmente) all’azionista pubblico e soprattutto al contribuente perché almeno sino ad oggi, e prevedibilmente ancora a lungo in futuro, non si riesca a riportare almeno in pareggio operativo una società come l’AnsaldoBreda che pure ha prodotti di qualità, affermati in molti casi anche su grandi mercati internazionali.
Eni, Enel, Finmeccanica, Fincantieri, Ferrovie, Poste sono aziende strategiche per il nostro Paese per ragioni fin troppo note e sulle quali è inutile ritornare, data la loro solare evidenza: certo, si potrebbero quotare, dopo Eni, Enel e Finmeccanica anche Fincantieri, Ferrovie e Poste, ma conservandone il controllo, e non per un pregiudizio ideologico, ma perché quelle holding – a vantaggio dell’economia nazionale e della nostra occupazione in tante regioni italiane da Nord a Sud – sono ormai fortemente internazionalizzate operando su mercati mondiali, e non vi è alcuna garanzia che altri loro azionisti di maggioranza riescano o vogliano perseguire le stesse finalità che sinora le hanno guidate.
L’Eni, ad esempio, ha annunciato otto miliardi di nuovi investimenti, alcuni dei quali destinati, fra l’altro, a suoi siti produttivi nell’Italia meridionale, dai cracking di Priolo e Porto Torres, alla raffineria di Gela, sino ai campi petroliferi della Basilicata: tutti impianti al servizio dell’economia italiana e con le cui produzioni si compete a livello internazionale. Anche l’Alenia Aermacchi del Gruppo Finmeccanica sta massicciamente investendo nel Nord e nei suoi impianti in Campania e in Puglia ove produce con migliaia di occupati qualificati sezioni di velivoli della Boeing e di altri player internazionali del comparto. L’Enel, a sua volta, sta costruendo il rigassificatore di Porto Empedocle e migliora ulteriormente l’ambientalizzazione della sua megacentrale a carbone di Brindisi da 2.640 MW con altri massicci investimenti, fra i quali si segnala la copertura dell’enorme carbonile.
Altri azionisti di controllo di quelle holding avrebbero realizzato gli investimenti citati? E le supply chain di imprese locali – che assicurano beni e servizi in logiche di mercato a quelle aziende e ai loro stabilimenti insediati nel Sud – si sarebbero sviluppate o verrebbero incoraggiate a crescere con altri azionisti?
Le grandi fabbriche, le raffinerie, gli steam cracker, le centrali e i rigassificatori facenti capo a Finmeccanica, Eni, Enel, insediati nelle regioni meridionali – presso le quali peraltro lavorano anche impiantisti grandi e piccoli del Nord Italia ed anche in alcuni casi esteri – esportano quote rilevanti delle loro produzioni e concorrono al Pil industriale dell’intero Paese. Cosa accadrebbe, invece, con la cessione del controllo pubblico di quelle holding? Il Mezzogiorno – che oggi è divenuto parte integrante e tecnologicamente avanzata dell’intero sistema industriale italiano, aiutandolo a competere nel mondo – continuerebbe ad assolvere tale funzione?
Si vogliono allora attirare nuovi investimenti esteri in Italia? Molto bene, ma non bisognerebbe tagliare prima il cuneo fiscale in misura tale da rendere competitivo il costo del lavoro con quello di altri Paesi? E il costo dell’energia? E le normative ambientali non dovrebbero prima essere razionalizzate e adeguate a quelle europee? Quale azienda infatti verrebbe ad insediarsi in Italia, e quali investitori acquisterebbero il controllo di holding i cui impianti potrebbero essere posti sotto sequestro dalla Magistratura a causa di normative non armonizzate con quelle europee? Le vicende dell’Ilva di quest’ultimo anno non dovrebbero insegnarci qualcosa al riguardo?
Allora, si faccia grande attenzione a non assumere, per la sola esigenza di far cassa, provvedimenti che potrebbero portare a perdere ulteriori quote di sovranità e di capacità imprenditoriali nazionali. Se vogliamo restare realmente, e non a livello propagandistico, un grande Paese industriale che compete nello scenario della globalizzazione non ce lo possiamo assolutamente permettere.
Lo ha ribadito anche il Presidente di Confindustria Giorgio Squinzi quando ha affermato che è meglio che testa e braccia delle aziende pubbliche restino in Italia.
Federico Pirro – Centro Studi Confindustria Puglia