Matteo Renzi è proprio un ragazzo fortunato: qualunque posizione sostenga, qualunque proposta avanzi il sindaco di Firenze (perché nessuno indaga su come amministra la città di cui vorrebbe restare primo cittadino anche da segretario del Pd o conta quante volte, in un anno, il nostro è stato presente in Consiglio comunale?) le sue levate d’ingegno divengono l’espressione del “nuovo che avanza”.
L’immagine e la realtà
In buona sostanza, Renzi continua a portarsi appresso l’immagine confusamente riformista delle “primarie” democratiche del 2012, quando nella sua piattaforma programmatica aveva saccheggiato, qua e là, idee altrui, tra le più “politicamente scorrette” agli occhi dei militanti dei circoli di base. Il Fonzie toscano – mentre celebra i fasti della “Leopolda 2” e cerca di contenere la corsa dei gruppi dirigenti a salire sul suo carro di presunto vincitore di tutte le sfide, nel partito e nel Paese – ha un bel da rimarcare che nei suoi confronti è cambiato atteggiamento, che non lo considerano più un estraneo e non lo cacciano a male parole dalle manifestazioni, invitandolo a recarsi ad Arcore.
I cambiamenti del Fonzie toscano
Eppure, basterebbero degli analisti e dei commentatori seri ed obbiettivi a far notare che il primo a cambiare è stato lui, assumendo le posizioni più popolari nella base e nell’elettorato del Pd: no alle larghe intese, sì al bipolarismo muscolare, oltre ad un bel po’ di antipolitica spicciola (che non guasta mai, salvo stendere un velo pietoso se i pm si occupano della Regione Emilia Romagna). Quanto al programma di politica economica e del lavoro il sindaco-candidato si è assuefatto alle idee più tradizionali della sinistra, individuando coperture finanziarie, suggerite dal suo guru personale, che riecheggiano di più le cifre di ‘’Ferrini’’ (uno dei personaggi dell’arboriana “Quelli della notte”) piuttosto che una ragionevole considerazione delle effettive disponibilità economiche.
Il Rottamatore ha rottamato Ichino
Sono comunque passati i tempi in cui, per dar prova di discontinuità, Renzi si avvaleva, in materia di lavoro, delle elaborazioni “maledette” di Pietro Ichino. Si dice che al Peter Pan toscano guardi con interesse un settore importante (maggioritario nel gruppo dirigente?) di Scelta civica, in particolare l’ala che, per ora, in attesa di come andrà a finire nel Pd l’8 dicembre (ecco l’Isola che non c’è), sta parcheggiata nella cittadella dell’autonomia del movimento da contrapporre al progetto di “superamento” di Sc sostenuto dalla pattuglia che non disdegna (ahinoi!) il rapporto con l’Udc e che osserva con attenzione (sic!) il dibattito all’interno del Pdl.
Le attenzioni verso i montiani
Negli ultimi giorni, dopo l’inutile riunione del 23 ottobre, si è contraddistinto nella polemica interna, Andrea Romano, già direttore di Italia futura. In un’intervista sull’Unità del 26 ottobre, ad una domanda sulle possibili alleanze del movimento, ha risposto: “Parlare di alleanze è prematuro. Bisogna vedere come sarà il Pd guidato da Renzi, se sarà in grado di essere diverso dal passato”. Un tono comunque più possibilista di quello riservato all’altra parte dello schieramento politico: “Bisogna vedere (con riferimento al Pdl, ndr) quanto saranno coraggiose le colombe. Tutto quello che contribuisce a consolidare il governo è positivo. Ma ho difficoltà a credere che la classe dirigente del Cavaliere, da Cicchitto a Quagliariello, possa improvvisamente scoprire una vocazione riformatrice. Mi pare – prosegue Romano – l’operazione di un ceto politico che non è in grado di superare il berlusconismo come cultura politica. E Scelta civica non può diventare – conclude – una costola del centro destra, neppure post o diversamente berlusconiano”.
L’azione delle colombe Pdl
Le considerazioni sul gruppo dirigente del Pdl nel suo complesso sono settarie, perché approssimative e ingenerose. Soprattutto quando si fanno affermazioni siffatte rivolte a Gaetano Quagliariello, che (diversamente da Romano) ha fatto parte dei saggi di Giorgio Napolitano e che conduce con mano ferma il lavoro del governo sulle riforme istituzionali. Fabrizio Cicchitto, da capogruppo del Pdl alla Camera, nella passata legislatura ha difeso il governo Monti nei passaggi più delicati, come durante la riforma delle pensioni, mal sopportata dalle formazioni di centro sinistra, e ha impedito che la legge Fornero sul mercato del lavoro diventasse l’occasione fornita ad una parte del suo partito per prendere le distanze dal governo. Poi, non è andato fino in fondo il 6 e il 7 dicembre quando c’era da prendere da Silvio Berlusconi quelle distanze che Cicchitto sta assumendo adesso e che, fino ad ora, hanno permesso all’esecutivo delle larghe intese di andare avanti, avendo ri-ottenuto la fiducia il 3 ottobre scorso.
Le linee di continuità
La storia non si fa con i “se”; ma è tutto da dimostrare che una maggioranza di centro-sinistra, vittoriosa nel 2008, avrebbe affrontato meglio la “tempesta perfetta” che è scoppiata pochi mesi dopo, quando dall’opposizione, a partire da Pd, criticavano per eccessivo pessimismo la “messa in sicurezza” del bilancio – voluta da Giulio Tremonti – e teorizzavano una politica di deficit spending, allo scopo di stimolare la crescita. Ma ad essere intellettualmente onesti si deve riconoscere una linea di continuità tra la politica di Tremonti (prima che, sciaguratamente, il Cavaliere lo <sfiduciasse>) e quella di Mario Monti e di Vittorio Grilli al Mef. Negli ambienti di Scelta civica, proprio in quelli più attenti alla frontiera di sinistra, si critica – giustamente – il decreto D’Alia sulla stabilizzazione dei precari della pubblica amministrazione e lo si indica come esempio delle nefandezze neodemocristiane dell’Udc. Tutto vero. Ma perché non rimarcare pure che quelle scelte, a cui D’Alia ha accondisceso, sono state richieste e sollecitate dalle forze politiche e sindacali della sinistra?