“Il nostro dovere è oggi dunque estremamente complesso e difficile. Perché siamo davvero ad una svolta della storia e sappiamo che le cose sono irreversibilmente cambiate, non saranno ormai più le stesse”. Queste parole pronunciate da Aldo Moro, in un discorso al Consiglio nazionale della Democrazia Cristiana del 21 novembre 1968 possono essere utili per tracciare il perimetro dello scontro tra lealisti e alfaniani.
In una sorta di derby tra ex democristiani che contano e si contano per acquisire la golden share del nuovo Pdl. Dove, indipendentemente da nomi e sigle, un mondo e un modo di intendere la politica appartengono ormai al passato per via di una svolta della storia, che si è esplicitata nella settimana appena trascorsa. E dove convivono di fatto – come da alcuni anni – chi è idealmente proiettato oltre il leader e chi, invece, cerca di perpetuare forse una leadership di fatto destinata ad esaurirsi.
Qui lealisti
E se dietro la dialettica fittiana si celasse il tentativo di ridare nuova veste ai falchi, inizia a mormorare qualcuno? Un duello tra delfini, visto che era stato lo stesso Cavaliere a investire l’ex governatore della Puglia della qualifica in occasione di un’inaugurazione della Fiera del Levante. Ma poi, complici le amministrative che in Puglia premiano ormai da quasi un decennio la sinistra, Berlusconi avrebbe spostato la sua attenzione su Alfano, particolare che pare non sia stato mai superato dal potente dirigente salentino. Fitto lo dice chiaramente: pur essendogli stato proposto lo scranno di capogruppo alla Camera, la sua linea non cambia. No a strapuntini e incarichi, sì ad un congresso che azzeri tutto. Insomma, la mossa della conta interna che servirebbe a pesare realmente – e democristianamente – tessere e influenze per poi accettare il responso della competizione. Ma con la linea maginot rappresentata dal principio della deriva neocentrista, su cui lancia l’allarme anche una moderata come Mariastella Gelmini.
Qui alfaniani
Niente epurazioni e niente congresso: ora è arrivato il tempo della leadership di Alfano. La posizione esplicitata dal ministro delle riforma Gaetano Quagliariello media tra il bastone e la carota. Se da un lato mena fendenti sul resto del gruppo dirigente spazzando ogni residuo dubbio sul futuro Pdl a guida Alfano, dall’altro “concede” che non vi saranno buoni e cattivi. Come dire che il nuovo “Ceo” post Berlusconi sarebbe disposto anche a dimenticare falchi, pasdaran e “kamikaze” del Cavaliere (copyright Micaela Biancofiore) pur di vedersi riconosciuta la figura di leader, dopo due anni da segretario-delfino. Quagliariello rafforza la sua tesi quando sottolinea l’orizzonte del macro obiettivo: “Sarà lui a sfidare la sinistra nel 2015, insieme alla classe dirigente che è stata accanto a lui in questi giorni”. Tracciando in pratica una doppia road map di governo e schieramento. In questo senso puntualizza anche quali settori gradiscono questo tipo di impostazione, quando osserva che “abbiamo soprattutto ascoltato il Paese, industriali, artigiani, la Cei. Chi non lo fa diventa marginale. E abbiamo suscitato una speranza nel Paese”. E avverte: “Non vogliamo nè un centrino nè una somma di nomenclature”. Per cui “si riparte da Alfano, liberato dal piombo dell’estremismo e delle oligarchie”.
Qui Arcore
Ma se da un lato la gara tutta mozioni e muscoli è vista di buon occhio anche dai falchi di ieri, oltre che dalla pattuglia dei tattici come Gasparri e Matteoli, dall’altro sconta il no del leader. Berlusconi lo ha ribadito: non servono spaccature interne, ci si concentri invece per l’unità del partito. Sì ma quale?
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