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Lampedusa, l’ipocrisia italiana che punta il dito solo contro Bruxelles

L’ennesima tragedia dell’immigrazione andata in scena nelle acque di Lampedusa ha scatenato le reazioni indignate della politica italiana. Il nostro Paese imputa a Bruxelles un disinteresse sui flussi migratori che approdano al sud del continente. Parole che David Carretta, corrispondente dalle istituzioni europee di Radio Radicale e collaboratore del Foglio e del Messaggero, definisce “ipocrite”. Ecco perché.

Carretta, perché considera ipocrita la reazione dell’Italia?
È facile prendersela con l’Europa quando ci sono queste tragedie, ma è opportuno ricordare che Bruxelles è un’entità astratta in tema d’immigrazione, in quanto non ha competenze in merito.

Come mai?
Il problema di fondo è che gli Stati non vogliono cedere sovranità a Bruxelles, perché l’immigrazione è un tema sensibile dal punto di vista elettorale e politico. Tutti, da Napolitano ad Alfano, chiedono aiuto all’Europa, ma sarebbero disposti a farsi dire da un funzionario finlandese chi deve entrare in Italia? Sarebbero pronti che qualcuno gli dica che l’Italia deve accogliere più persone, anche se approdano in Grecia, perché ha un’economia più solida di quella di Atene?

È colpa solo dell’Italia?
Assolutamente no. Anche gli altri Paesi vivono profonde contraddizioni. Germania, Francia e i nordici temono di doversi fare carico dei problemi altrui, bloccano tutto ciò che può apparire come una comunitarizzazione delle politiche migratorie, salvo poi lamentarsi perché diventano la meta prediletta dei richiedenti asilo.

Sbrigarsela da soli non è contro gli interessi italiani?
Non sono sicuro che avremmo tutto l’interesse ad avere politiche europee in tema di immigrazione. Non siamo un Paese di integrazione, ma di transito. Basta vedere i numeri. Accogliamo molti meno rifugiati di altri Stati europei. È una politica che adottiamo da anni. Anche recentemente, con i venti di guerra in Siria, l’Unhcr ha lanciato un appello ai Paesi europei perché si facessero carico di alcuni profughi provenienti da Damasco. Alcuni Stati, come Francia e Germania, ne hanno accolti qualche migliaio. Noi nemmeno uno. Quel rapporto del Consiglio d’Europa che è uscito l’altro ieri e che punta dito contro la gestione degli sbarchi in Italia e contro i respingimenti dice una cosa vera: il nostro Paese non ha mai adottato una politica per l’immigrazione, ma ha permesso alla gente sbarcata di andare in altri Paesi che offrono più benefici ai rifugiati. A un certo punto questa politica l’abbiamo anche istituzionalizzata, nel 2011, quando il ministro dell’Interno Roberto Maroni decise di concedere migliaia di permessi di soggiorno temporanei, spingendo i migranti verso Ventimiglia, e scatenando le ire di Parigi, che chiuse le frontiere in violazione di Schengen.

È solo un problema di sovranità, dunque?
Anche di solidarietà. Nessun Paese europeo, in fondo, è disposto a ripartire in modo equo i flussi in base alla propria ricchezza e alle proprie capacità di accoglienza. Vorrei che Matteo Salvini della Lega Nord o il giornalista Massimo Gramelliniche oggi lo ha scritto sulla Stampa – si indignassero pubblicamente anche quando le stesse tragedie avvengono vicino le coste di Spagna e Malta o nei camion che attraversano il confine polacco. La verità è che ognuno preferisce fare come gli pare, perché il tema dell’immigrazione tocca la pancia degli elettori. La Commissione europea fa quel che può con i pochi strumenti che ha istituito: Frontex per pattugliare le coste, l’Ufficio europeo per l’asilo, i programmi per ripartire i rifugiati tra i diversi Paesi, i finanziamenti di cui l’Italia è tra i principali beneficiari. Prossimamente sarà attivato anche Eurosur: una mappa interattiva per scambiare informazioni nazionali di radar, satelliti e avvistamenti umani. Ma allo stesso tempo Bruxelles chiede agli Stati membri di non criminalizzare l’immigrazione, ma aprirsi – con regole strette – all’opportunità economica dei flussi. Il nostro continente sta declinando dal punto di vista demografico e questa inversione di rotta non è più rimandabile.


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