Intervento pubblicato lunedi 7 ottobre su Mezzogiorno Economia – inserto di Corriere Economia.
La decisione dell’Enipower di rinunciare al potenziamento e alla riconversione a metano della sua centrale oggi ad olio combustibile nella raffineria dell’Eni di Taranto, dopo aver atteso invano per anni le relative autorizzazioni di competenza degli Enti locali, alimenta forti preoccupazioni sul futuro dello stesso sito di raffinazione al cui esercizio la centrale è oggi asservita, non riuscendo tuttavia ad assicurargli tutta la potenza di cui necessita: per tale ragione il potenziamento dell’impianto – in un primo tempo previsto a 240 MW e poi ridotto su richiesta della Regione a 120 – era fondamentale per garantire il fabbisogno della raffineria ad un prezzo più basso che avrebbe finito con l’incidere positivamente sul costo del suo esercizio.
La riconversione a metano inoltre avrebbe ridotto l’impatto ambientale della nuova centrale, ma la strenua opposizione degli ecologisti – che è riuscita a paralizzare le decisioni degli Enti locali – ha puntato il dito invece sull’incremento della CO2 che ne sarebbe derivato da un aumento di potenza, anche se l’Enipower aveva offerto una compensazione riduttiva in un altro suo impianto di generazione su Brindisi. La Regione – che pure aveva riconosciuto la necessità e l’utilità di riconvertire a metano l’impianto di generazione – ne aveva proposto una riduzione di potenza a 120 MW, accolta dall’Enipower, ma che non ha ottenuto neppure in tale minore dimensione l’autorizzazione attesa, per cui ha ceduto la centrale alla consociata Eni Refining& Marketing perché provveda essa a riconvertirla, se e quando riceverà i relativi di permessi.
Si consideri inoltre che a Taranto – dopo un iniziale positivo accoglimento almeno in linea di massima da parte della Regione – era stato bloccato dal 2009 anche il potenziamento della raffineria da 6,5 a 11 milioni di tonnellate all’anno di greggio che l’altro avrebbe consentito il ben più ecologico trasporto con oleodotto, e non via nave come accade tuttora, dal capoluogo ionico a Brindisi della virgin nafta necessaria per le produzioni della Versalis-Eni.
E così un investimento di oltre 1 miliardo di euro che, fra l’altro, avrebbe assicurato migliaia di ore di lavoro a molte aziende impiantistiche locali, impiegandone le maestranze – è venuto meno, così come rischia di saltare l’altro investimento di 300 milioni del progetto denominato Tempa Rossa previsto per l’incremento della capacità di stoccaggio del petrolio che sarà estratto in Basilicata dal 2015 nella Valle del Sauro dalla Total, dopo quello già estratto in Val d’Agri dall’Eni e già trasferito al sito di raffinazione di Taranto: anche tale investimento, consistente nella realizzazione in esso di due nuovi grandi serbatoi e al potenziamento dei pontili nello scalo portuale ionico è a rischio, nonostante le autorizzazioni già ricevute che,però, sono state messe in discussione dal Comune, dopo le vicende legate all’Ilva.
Ora, che tutti i nuovi investimenti da chiunque previsti su Taranto debbano uniformarsi a rigide normative in materia di tutela dell’ambiente e della salute di cittadini ed operai è tanto giusto da essere persino ovvio: e in tale direzione si possono sperimentare nuovo tecnologie e best practices gestionali che abbatterebbero i fattori inquinanti e nocivi. Ma a Taranto l’estremismo ecologista – che peraltro rappresenta una assoluta minoranza della popolazione locale, se è vero che nel referendum consultivo dell’aprile scorso per la chiusura dell’Ilva o della sua area a caldo poco meno del 20% degli aventi diritto è andato a votare – arrogandosi una sorta di diritto di veto su taluni investimenti riesca a condizionare le Autorità competenti che sembrano così paralizzate nelle loro decisioni. Anche la Cementir ha rinunciato all’ammodernamento della sua cementeria per 140 milioni di investimenti ammessi ad incentivi e 19 milioni di agevolazioni riconosciute dalla tecnostruttura della Regione il cui Esecutivo però non ha ancora approvato da 4 anni il relativo contratto di programma.
Insomma, Taranto sta perdendo investimenti preziosi per l’economia dell’intero Paese a causa degli estremisti dell’ambientalismo cittadino.
Federico Pirro – Centro Studi Confindustria Puglia