Politica protagonista assoluta della scena mondiale, con il possibile default di Washington ad incombere sulle Borse ed a deprimere i mercati dopo la mancata intesa al Congresso sul finanziamento dell’apparato statale: il famigerato “shutdown” ha comportato, dalla mezzanotte del 1 ottobre scorso, il blocco del governo federale per mancanza di fondi mediante un taglio dei servizi “non essenziali” costituiti da musei, sportelli ministeriali e persino parchi naturali che ha provocato, come conseguenza diretta, la perdita del posto di lavoro a circa 800mila impiegati federali.
Ben poca cosa rispetto alle conseguenze di quello che causerebbe un mancato accordo sull’innalzamento del tetto del debito: secondo l’agenzia di stampa Bloomberg, ripresa pochi giorni fa anche dal quotidiano finanziario Il Sole 24 Ore, se gli Stati Uniti non fossero in grado di ripagare i 12mila miliardi di dollari di debito (pari a 23 volte l’esposizione del collasso Lehman Brothers che, poco più di 5 anni fa, innescò la più grave crisi economica del Dopoguerra) sui mercati finanziari mondiali si scatenerebbe una catastrofe senza precedenti.
Basti pensare che la scorsa primavera il solo timore di un aumento dei tassi d’interesse americani congiunto all’incertezza sulla politica adottata dalla Federal Reserve ha interrotto la convergenza degli spread nell’Eurozona, producendo la revisione al ribasso delle stime di crescita di tutti i paesi emergenti da parte del Fondo Monetario Internazionale (FMI); in tempi più recenti il solo annuncio di un prossimo avvio della riduzione degli stimoli di politica monetaria (il così detto “tapering”) è stato in grado di fermare la crescita in Asia e rafforzare l’euro, rendendo di fatto più difficile l’uscita del Vecchio Continente dalla recessione.
L’annuncio di un default formale, ma più semplicemente anche solo l’incapacità temporanea di ripagare i titoli pubblici del paese considerato dai mercati il più sicuro al mondo, metterebbe a rischio i debiti sovrani di tutto il globo con un’esponenziale ripresa della recessione in gran parte delle economie, a scapito del potere economico e della credibilità dei singoli Stati.
In attesa che Democratici e Repubblicani trovino un accordo, magari in extremis come avvenne due anni fa, l’andamento dei titoli di Stato a stelle e strisce, i così detti T-bond, sta facendo faville, con i rendimenti delle obbligazioni a breve termine (i più esposti alle crisi imminenti) caduti addirittura al minimo degli ultimi due mesi; l’esatto opposto di quanto avvenuto in Italia nel novembre del 2011 quando, di fronte al rischio di un default del Bel Paese preannunciato da un repentino ed ingentissimo allargamento dello spread, il rally dei rendimenti provocò le dimissioni dell’allora governo Berlusconi.
Quasi lo stesso discorso vale per l’andamento di Wall Street: le perdite registrate finora sono poca cosa se rapportate ad un rischio d’insolvenza quanto mai concreto, a sancire la profonda differenza che il concetto di “sicurezza” assume sulle due diverse sponde dell’Atlantico: al contrario di quanto avviene in Europa, gli investitori d’oltreoceano cercano rifugio proprio in quei titoli che qui verrebbero liquidati senza troppa esitazione, così come il mercato (ma forse dovremmo dire la speculazione) non partecipa allo scontro politico interferendo sui listini con strategie aggressive.
Un impietoso spaccato di un’Eurozona divisa nella politica ed al passo nell’economia, dove l’interesse collettivo ed il bene comune non sempre coincidono e prevalgono su quelli di partito, dove manca una banca centrale autonoma dalla politica, indipendente nelle scelte e pronta a tutto per sostenere economia e sistema finanziario, dove il salvataggio del settore finanziario dalle sue follie (pagate dal settore reale) ha permesso ai politici di rinviare quelle riforme del settore stesso che avrebbero potuto colmare i divari di regolamentazione e vigilanza ed eliminare gli incentivi verso la manipolazione del sistema.
Per contro la fiducia nella capacità degli Stati Uniti di rimettere i propri conti in ordine – stigmatizzata, come si diceva, da tassi debitori molto bassi – sembra godere di un credito pressoché illimitato, tant’è vero che, malgrado l’inasprirsi dello scontro tra Casa Bianca e Repubblicani, l’economia americana sta dimostrando grande capacità di ripresa e sembra destinata a rafforzarsi, lasciando difficile immaginare un autogol così maldestro come quello del default.
Per ora le risposte del mercato sono state di routine, senza reazioni di panico o di forte tensione ma, con il passare del tempo, il rischio di brusche correzioni aumenta; né vanno sottovalutati ammonimenti come quello di Warren Buffett sull’utilizzo di tecnicismi politici, che possono avere «la conseguenza di una esplosione nucleare sui mercati», o quello, ben più esplicito, giunto dal più grande sottoscrittore di titoli del Tesoro americano per tramite del suo vice ministro delle Finanze, il cinese Zhu Guangyao: «Mettete ordine in casa vostra perché vogliamo che gli investimenti cinesi in titoli americani siano tutelati».
Tutto lascia supporre che, similmente a quanto avvenne l’anno scorso in occasione del”fiscal cliff”, il “baratro fiscale” in cui sarebbe precipitata l’America dibattuta tra il pericolo di un forte aumento delle aliquote fiscali ed i tagli automatici di spesa, si raggiungerà un compromesso, magari separando il bilancio dal rinnovo del tetto sul debito, come recentemente proposto dalla Casa Bianca per risolvere almeno la parte finanziaria dell’attuale crisi fiscale americana.