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Perché Letta è fragile

L’editoriale di Ernesto Galli della Loggia, uscito domenica scorsa sul Corriere, dovrebbe far riflettere. Non soltanto, infatti, è stato messo in luce in modo dettagliato l’insieme dei problemi strutturali che il nostro Paese sta vivendo, ma è stato spiegato il perché in questi ultimi vent’anni siamo finiti in un baratro tanto evidente.
Si sono sommati, in definitiva, antichi mali congeniti a nuove disfunzioni organizzative di tipo sociale e culturale. Anche se, ovviamente, il vulnus vero è stato il venir meno della politica. Ben inteso, non di tutta la politica, ma radicalmente e sistematicamente di quei partiti che un tempo definivano la cosiddetta area democratica: Dc, Pli, Psi, eccetera.

L’avvento di Berlusconi è stato essenziale per difendere un elettorato libero e liberale, sebbene mai sia stata attuata la tanto invocata e attesa rivoluzione liberale.
Galli ha dedicato la parte finale dell’articolo all’attuale stagione delle larghe intese, dedicandovi parole dure, a mio avviso, assolutamente condivisibili.
Il punto vero che rende fragilissimo e poco convincente l’esperimento Letta è la conformazione di interessi e di identità culturali presenti nell’elettorato italiano, un coacervo di esigenze contrapposte che mal si adattano ad una politica finanziaria di mediazione come quella presentata dal Governo.
Per coloro che non si riconoscono politicamente nell’area di centrosinistra, non adattando le proprie volontà a quelle del Pd, oggi non è questione di Berlusconi o di Alfano, non è questione di Renzi o Letta. Il problema è, viceversa, poter avere una proposta politica che preveda nelle premesse che non vi sia la sinistra.
Una possibile coalizione e unione di forze “senza sinistra” è l’unica esigenza che un progetto popolare italiano dovrebbe inseguire, magari prendendo consensi al centro e a sinistra. Avere, infatti, a fondamento della propria visione della vita etica generale l’idea di libertà vuol dire presentarsi anche con Berlusconi eventualmente, ma non solo con lui in contrapposizione a coloro che invece ragionano partendo da un’idea di giustizia e di uguaglianza legalista e coercitiva che ha ammazzato e sta seppellendo il Paese.

Se Galli ha ragione, e io penso che abbia ragione, allora non si può pensare, oltretutto, che la maggioranza degli italiani che condividono il quadro cupo della nostra situazione corrente abbandonino la insensatezza della propria linea in nome di strane e maldestre ipotesi centriste, destinate a produrre da sole soltanto un misero centrino insignificante, sacrificando sull’altare della governabilità debole di questo esecutivo l’istanza vera di un programma di riforme, attuabili dal centrodestra unicamente “senza sinistra”.
È la storia che ci indica il futuro. Il centro-sinistra aveva senso solo con il trattino, vale a dire come un’opzione di politiche sociali e popolari non conservatrici opposte alla sinistra, riformatrice o progressista che sia.

Per risolvere la pessima situazione nazionale, magistralmente descritta da Galli, c’è bisogno di un centrodestra unito, rinnovato e alternativo da ora al Pd. D’altronde, non possono esistere posizioni minoritarie come quelle di Scelta Civica o domani di Passera senza che vi siano due movimenti di massa che si distinguono tra loro in altrettanti nuclei interclassisti di radicati appannaggi elettorali.
Lavorare a ricreare l’area democratica e popolare vuol dire avere il coraggio di includere il consenso amplissimo per Berlusconi in un polo politico che intenda promuovere una cultura sociale che vede nel Pd un’area diversa e inconciliabile con se stessa. Dopo un eventuale pareggio elettorale, allora sì, avrebbe senso collaborare al Governo del Paese, in nome però di un risultato di impasse insuperabile e senza mescolare le carte nella nebbia delle larghe intese.



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