La Legge di stabilità? Lo specchio fedele di un governo delle larghe intese che cerca di tirare a campare, ma per ora a stare peggio è il sindacato che da tempo non è più in grado di realizzare alcuno scambio politico. È la diagnosi di Michele Magno, già dirigente sindacale e politico di spicco nella Cgil e nel Pci, ora editorialista e saggista, secondo cui “lo sciopero proclamato dai sindacati contro la Legge di Stabilità sembra non importare a nessuno”.
Lo sciopero generale vive le medesime difficoltà del sindacato?
Sarebbe stato un avvenimento che avrebbe messo in crisi in maniera determinante un governo normale, figuriamoci un esecutivo delle larghe intese. Ora sembra quasi una notizia di cronaca e rispecchia la marginalità e l’irrilevanza politica del sindacato che non è di oggi ma che si è consolidata nel corso della crisi.
Solo colpa della crisi?
Non c’è dubbio che sette anni di recessione, che hanno picchiato durissimo sull’occupazione, e hanno messo in discussione i punti centrali della forza del sindacato (penso in modo particolare all’industria settentrionale), abbiano determinato una parabola discendente del ruolo sindacale. E non soltanto nel sistema delle relazioni industriali, ma anche in quanto soggetto politico che si confronta con il governo ed è capace di condizionarne le scelte.
In che cosa difettano le organizzazioni sindacali?
Il sindacato da tempo non è più in grado di realizzare alcuno scambio politico con le pubbliche autorità. Nel senso che molto è stato tolto ai suoi rappresentati, in termini di reddito e lavoro. Inoltre non ha saputo mettere sul piatto della bilancia alcuna contropartita.
Quale contropartita?
Avrebbe potuto darla mostrando molto più coraggio rispetto a quello che ha mostrato, sul terreno dell’innovazione delle relazioni industriali, del decentramento contrattuale, di una flessibilità regolata dell’occupazione. Una timidezza su cui è stata complice anche la Confindustria.
Cosa imputa?
Marginalità politica crescente, rappresentatività messa in discussione dalla congiuntura economica, incapacità anche dei gruppi dirigenti di capire che con la crisi la fase del sindacato come soggetto politico si stava chiudendo. Ed era necessario aprirne un’altra puntando a valorizzare molto la sua missione, ovvero rinverdire il sistema delle relazioni industriali, dal momento che nelle singole rappresentanze convivono diverse culture e pregiudizi ideologici che hanno resistito e hanno prevalso per evitare di sondare terreni nuovi.
Come leggere le dimissioni prima minacciate dal viceministro Stefano Fassina in polemica con la legge di stabilità, poi rientrate assieme alla critiche al provvedimento?
Alcuni suoi rilievi non erano sbagliati. Ma soprattutto dopo la vicenda delle mancate dimissioni, rientrate credo sulla base di rassicurazioni avute da Letta, non poteva mettersi ancora una volta di traverso spalleggiando la decisione sindacale. Quindi in un certo senso, al di là delle ragioni di merito, ovvero i vincoli di bilancio con l’Europa che non si possono oltrepassare, Fassina non poteva che fare questa sortita.
Come giudica la Legge di stabilità?
È lo specchio fedele di un governo delle larghe intese che cerca di tirare a campare.
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