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Telecom, Alitalia e Intesa, i poteri forti sono morti. Parola di Galli

L’estromissione del Consigliere delegato Enrico Cucchiani da parte di Giovanni Bazoli e delle fondazioni Cariplo e Compagnia San Paolo in Intesa. Il terremoto ai vertici di Telecom con l’uscita di scena di Franco Bernabè non gradito ai nuovi proprietari di Telefonica e abbandonato dagli azionisti italiani Mediobanca, Intesa e Generali. L’epilogo della vicenda Alitalia con la speranza nell’intervento di Air France-KLM contro cui pochi anni fa vennero sollevate le bandiere dell’italianità. E il salvataggio dell’ultima ora, grazie all’Italmobiliare della famiglia Pesenti, del patto di sindacato che governa Mediobanca.

L’establishment economico-finanziario del nostro capitalismo è giunto al tramonto? Ed è plausibile parlare di “poteri forti” nell’Italia del 2013? Formiche.net ne ha parlato con Giancarlo Galli, giornalista, editorialista di Avvenire, autore di saggi e inchieste di argomento economico-finanziario. Le sue testimonianze sul ceto dirigente hanno preso forma in libri quali “Nella giungla degli gnomi”, “Il padrone dei padroni. Enrico Cuccia e il capitalismo italiano”, “Poteri deboli. La nuova mappa del capitalismo nell’Italia in declino”, “Finanza bianca. La Chiesa, i soldi, il potere”, “Gli Agnelli. Declino di una dinastia”.

Alla luce dell’estromissione di Cucchiani ad opera del presidente di Intesa, Bazoli, e della graduale fuoriuscita di Mediobanca dai “salotti buoni” del capitalismo italiano a partire da Telecom, i “poteri forti” nel nostro Paese sono ancora vivi?

Si tratta di segni di fragilità piuttosto che di forza. Vi è un conservatorismo bancario di cui Bazoli è espressione. Al contrario di Cucchiani che aveva in mente cambiamenti incisivi nel modo di essere e di agire di un grande istituto di credito. Ragion per cui parlare di poteri forti in Italia è del tutto improprio. Non esistono perché nel nostro Paese non vi è più un’impresa rilevante. Pensi alla vicenda Telecom. Gli azionisti di riferimento – Mediobanca, Intesa e Generali, che resta la terza industria assicuratrice europea – hanno giocato sulla difensiva: elemento impensabile vent’anni fa. Fiat ha cessato di essere italiana mentre proietta altrove il suo cervello strategico e le sue iniziative. Ormai ha perduto ogni dimensione dinastica e ha lasciato persino Confindustria, divenuta un’entità pallida come rivela la vocazione internazionale della Mapei di Giorgio Squinzi. Le élite finanziarie sono talmente debilitate che si sono messe in cordata nei mass media. Per cui da noi non esiste una stampa economica indipendente. Ma come conferma la vicenda Corriere della Sera, il loro patto si sta sfilacciando. Si sta realizzando la profezia di Enrico Cuccia secondo cui era meglio che gli imprenditori non si occupassero dei giornali.

La mancanza di figure di spicco è un fattore decisivo nella desertificazione produttiva del nostro Paese? 

Se l’Italia, con l’eccezione dell’Eni, si è de-industrializzata negli ultimi lustri al contrario di Francia e Germania, è anche perché ha perduto i Pirelli, i Pesenti, gli Agnelli. E basta guardare alla povertà della Borsa per capire che sono venuti meno grandi banchieri come Enrico Cuccia, Raffaele Mattioli, Guidi Carli. Il cui allievo migliore, Mario Draghi, è andato a dirigere la Bce e se tornerà a Roma lo farà come “pro-console” di una realtà sull’orlo del tracollo.

Le principali banche italiane si possono reggere sulle fondazioni per le prossime ricapitalizzazioni di cui hanno bisogno?

Assolutamente no. È stato un errore colossale creare le fondazioni bancarie, perché in tal modo si è costituito un tessuto clientelare e di doppia referenzialità: verso gli azionisti-risparmiatori e verso i poteri politici locali. Giulio Tremonti voleva disboscarle, ma non vi è riuscito e si è arreso alla palude. Spero che nel breve termine si trasformino in società per azioni. Tuttavia, visto che nella realtà creditizia di piccoli istituti radicati nel territorio where to buy levitra cheap e soprattutto nelle casse di risparmio vi è una forte presenza dei cattolici, mi aspetto grandi rivolgimenti e ripercussioni per l’iniziativa riformatrice promossa dal Pontefice nei confronti dello Ior.

Non è preferibile aprire le banche italiane agli investitori esteri, come era nella volontà dell’ex Ceo di Intesa?

Senza dubbio. Ma quegli istituti hanno paura di farlo. Basti pensare al sistema duale di governance, articolata in un Consiglio di sorveglianza a cui vengono assegnate le funzioni di controllo e indirizzo, e un Consiglio di gestione investito dell’amministrazione. Un assetto concepito per frenare l’arrivo di investitori stranieri e che ha vinto nello scontro all’interno della prima banca nazionale. Così ci si chiude in un super provincialismo auto-difensivo. Ne è riprova il fatto che oggi gli istituti creditizi italiani non oltrepassano i nostri confini per compiere acquisizioni di rilievo.

L’acquisto di Telecom da parte di Telefonica è una svendita a buon mercato di un “gioiello di famiglia” a vantaggio di un’azienda indebitata forte dell’appoggio “politico” delle banche spagnole? 

Telecom è stata venduta perché i suoi dirigenti si sono rivelati incapaci di gestirla. Evidentemente Franco Bernabè non aveva la statura adatta al compito. Il nostro management industriale, tranne  il nuovo amministratore delegato di Generali, Mario Greco, e lo stesso Cucchiani, non è adeguato. Si tratta di figure che vengono per metà dal settore pubblico e si cooptano fra loro creando un modesto capitalismo di relazioni e non di iniziativa. Per quale motivo dobbiamo criticare l’operazione Telecom-Telefonica in cui il pesce più grosso mangia quello più piccolo? Ricordo che le azioni dell’ex gigante delle telecomunicazioni nell’arco di pochi anni sono passate da 8 a meno di 1 euro.

Ritiene che Cassa depositi e prestiti debba giocare un ruolo centrale nella rete di accesso alle Tlc a cui il governo vuole estendere la golden share quale comparto strategico? 

A mio giudizio Cdp è una sorta di rifugio per ri-nazionalizzare settori produttivi quando le cose non vanno bene e ogni volta che un “gioiello di famiglia” viene venduto. Ma prima non ci eravamo accorti che nella rete Telecom vi erano fattori strategici anche sul piano della sicurezza e dell’intelligence?

L’epilogo della vicenda Alitalia non è il frutto inevitabile della miscela di nazionalismo economico e politica invadente? 

Ritengo che alle sue origini vi sia la vocazione italiana a fare le nozze con i fichi secchi. Silvio Berlusconi aveva mobilitato alcuni imprenditori italiani per acquisire la compagnia di bandiera e gettare il cuore oltre l’ostacolo. Un gruppo di businessman modesti etichettati come capitani coraggiosi, che non avevano voglia di realizzare i grandi investimenti necessari. E così il Cavaliere si illuse. Lui avrebbe potuto concepire un’iniziativa di tale respiro. Mentre la cordata nazionale non ha funzionato e la compagnia ha ristretto progressivamente offerta e flotta. È una storia analoga a quella riguardante le televisioni private, che a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta vide i tentativi infruttuosi di Mondadori, Rusconi e Rizzoli. Tutti convinti di riuscire nell’impresa pur investendo poco, al contrario di chi rischiò moltissimo e costruì un impero mediatico.

Qual è il futuro di Mediobanca, alla luce del salvataggio dell’ultima ora del Patto di sindacato per opera di Carlo Pesenti?

Mediobanca è stata grande istituzione perché aveva in Enrico Cuccia un uomo eccezionale al suo vertice che metteva in fila gli imprenditori nelle grandi opere di interesse generale. Era il punto di riferimento politico dell’imprenditoria italiana. Morto Cuccia e mutati i tempi, l’istituto ha perso autorevolezza. Penso che diventerà sempre più una banca d’affari di normale dimensione. E un giorno, forse, verrà assorbita dal suo attuale azionista di maggioranza che è Unicredit.


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