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Tutti i sogni di Adriano Olivetti, lo Steve Jobs italiano

Con l’autorizzazione del gruppo Class Editori pubblichiamo il commento di Gianfranco Morra apparso sul quotidiano Italia Oggi diretto da Pierluigi Magnaschi.

Rai: di tutto, di più. Anche cose buone. Come le due puntate dedicate ad Adriano Olivetti (interprete insuperabile Luca Zingaretti). Un personaggio fra i più rilevanti della nostra storia economica, sociale e culturale. Un manager industriale efficiente e vincitore, che ha sempre subalternato il profitto alla solidarietà e al bene comune. Alla «comunità», che era la parola magica del suo movimento politico, della rivista culturale, della casa editrice. Dello sviluppo industriale sollecitato dal fascismo fu, insieme al padre Camillo, uno degli artefici. E divenne una pedina insostituibile della ricostruzione industriale negli anni Cinquanta.

La Olivetti, che nel 1932 aveva dato all’Italia la prima macchina da scrivere, nel dopoguerra ne divenne la prima produttrice nel mondo. E realizzò non solo la più venduta portatile, la Olivetti 22, quella «sacra» di Montanelli, ma anche il primo calcolatore elettronico a transistor. Le cifre sono sbalorditive: nel 1961 652.000 scriventi e 619.000 calcolatori, rispetto al 1951 un aumento dell’816 %.

Ma Olivetti aveva anche capito che la produzione industriale non la fanno le macchine, ma gli uomini: con i loro bisogni e relazioni, con il loro desiderio di rapporti. Uomini che vivono in un ambiente, che deve rispondere non solo alle loro necessità materiali, ma anche alle aspirazioni comunitarie. La fabbrica e l’ambiente urbano devono essere adattati alle attese dei lavoratori, divenire, per così dire, un loro stile di vita. Chi conosce Ivrea, sa di che cosa si tratta.

Ma forse la cosa più straordinaria della sua attività fu l’interesse forte e fattivo per le questioni sociali e religiose. Che aveva respirato in famiglia: padre israelita, madre valdese, moglie pure israelita (Paola Levi, sorella di Natalia Ginzburg), era per natura portato al rispetto di tutte le religioni, anche se il cattolicesimo, al quale si convertì nel 1949, gli sembrava un gradino più in alto.

Chi si apriva agli studi religiosi nell’immediato secondo dopoguerra ha verso di lui una gratitudine immensa: il catalogo della sua Editrice era (anche dopo la sua improvvisa morte, non priva di sospetti, a 59 anni) di tanto sopra tutti gli altri per la qualità degli autori. Troppi per ricordarli: bastino Kierkegaard, Maritain, Eliot, Berdiaev, Buber, Simone Weil, Mounier. Non meno utili i pensatori politici: da Aron a Duverger e Hannah Arendt.

Leggi l’articolo completo su Italia Oggi


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