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Anche i magistrati frantumano la famiglia

E’ veramente triste costatare che della famiglia in Italia ormai non parla bene più nessuno. Non che le famiglie non esistano più, ovviamente, ma l’incedere dei problemi politici, il frantumarsi dell’equilibrio economico e spesso lo spazio smodato per la cronaca nera causano un calo di attenzione si problemi sociali che sono e restano invece al vertice delle priorità del Paese. Forse per questo è parso quanto mai indicativo l’appello rivolto dal Papa al presidente della Repubblica, ieri in occasione dell’incontro al Quirinale, proprio in favore della cellula fondamentale della nostra società, la famiglia, vale a dire l’unione pubblica che un uomo e una donna decidono di fare in vista, auspicabilmente, di generare e allevare la prole.

Purtroppo non soltanto la famiglia è uscita dalle priorità mediatiche, ma non si prende più la briga nessuno di vigilare su quanto accade intorno ai minorenni, spesso senza guida, magari destinati a crescere nella criminalità. A peggiorare le cose ci pensa per talvolta perfino la magistratura. E il fatto è avvenuto a Bologna, città all’avanguardia del progressismo all’italiana, che ha visto il consumarsi della decisione da parte del Tribunale di concedere l’affido temporaneo di una minorenne, una bambina di tre anni, a una coppia gay, ossia due adulti maschi, di mezza età e dello stesso sesso.

In effetti, questo non è che l’apice di una contraddizione che rende l’affido temporaneo dei minori libero da particolari vincoli, mentre purtroppo l’adozione vera e propria costituisce una fatica irta di difficoltà per coppie corrispondenti rigorosamente alla definizione di famiglia presente nella nostra Costituzione.

Ora, senza avventurarsi in spericolate interpretazioni giuridiche, la scelta in questione del giudice appare quanto mai discutibile dal punto di vista etico. E’ vero, infatti, che non mancano iniziative che tendano a equiparare le coppie gay a quelle naturali, non da ultimo la presa di posizione reiterata esplicitamente a favore dei gay del sindaco di Roma Ignazio Marino, il quale sogna addirittura una totale eguaglianza sociale di diritti puramente individuali, senza alcun riferimento al distinto e superiore diritto pubblico. Tuttavia sia permesso, con grande rispetto per ogni persona, di dissentire nel modo più fermo e assoluto a queste possibilità indifferenziate.

La prima ragione riguarda esattamente i protagonisti che subiscono le concessioni, oggi una bambina data in affido, domani magari adottata. Non abbiamo deciso noi, voglio dire la nostra cultura occidentale o qualche influente comunità religiosa, né il cambio delle stagioni, né il movimento degli astri nell’universo e tanto meno il modo in cui nascono e devono svilupparsi i bambini. Per mettere al mondo una persona ci vogliono due libertà responsabili, una maschile e l’altra femminile, che decidano di farlo e poi si accollino la responsabilità, fino alla maggiore età e oltre, del mantenimento, della crescita e dello sviluppo fisico, intellettuale e morale del ragazzo o della ragazza. Non tener conto di questo dato di partenza significa pensare che siamo e possiamo fare come ci pare a scapito di noi stessi e anche dei nostri simili. Salvo poi lamentarsi quando s’incontrano squilibrati che ci danneggiano. In realtà, la libertà di scelta di un adulto non può contrastare mai con i diritti che una persona che ancora non lo è ha necessità di possedere. Avere un padre e una madre, per quanto fragili e pieni di difetti, come siamo tutti noi, è fondamentale per essere e divenire persone come si deve. Insegna a conoscere la distinzione sessuale come una ricchezza complementare da cui emerge progressivamente la personalità sessuata dell’adolescente e dell’adulto. Un affidamento a due soggetti dello stesso sesso non corrisponde, perciò, né a quanto determina per natura le condizioni della nascita, né gli obblighi reciproci di educazione, né la base autentica per la costruzione responsabile dei cittadini di domani.

In secondo luogo, bisogna tener presente che la stabilità della relazione tra due singoli non costituisce in sé il principio del matrimonio, il quale regola anche le norme pubbliche di accesso alle adozioni. Il matrimonio è un atto pubblico che decreta l’impegno di due persone di sesso diverso, potenzialmente generatrici di nuova vita, a costituire un nuovo soggetto sociale di diritto pubblico idoneo a educare i piccoli e a farli diventare grandi. I giuristi romani, infatti, definivano il matrimonio uno Jus publicum, proprio per distinguerlo dagli accordi tra privati che hanno sempre una clausola di reversibilità. Giorgio La Pira, non quindi un pericoloso reazionario, ha osservato con grande precisione e acume in un suo memorabile articolo che la famiglia si regge sulla stabilità giuridica del matrimonio perché la relazione personale tra i coniugi è l’unica in grado di assumere i connotati di un nuovo soggetto sociale pubblico, presente oltre i semplici individui, il quale si completa ed estende con la nascita della prole.

Viva le adozioni, dunque, quando esse suppliscono a impedimenti materiali nella generazione di coppie. Ma come poter giustificare che due persone gay, le quali non sono in grado per natura di generare figli, possano essere indicati dal tribunale come un soggetto avente le condizioni sociali e pubbliche tipiche della condizione matrimoniale?

E’ triste costatare, nello specifico, che una società come la nostra, che si fonda da sempre su famiglia ed economia domestica, non sussulti e reagisca duramente contro questa linea assurda di secolarizzazione di un istituto come il matrimonio che legittima e determina le condizioni legali di aderenza alla natura dell’ordinamento civile. Sembra, in definitiva, che tutti accettino pavidamente la logica dell’omofobia come reato di opinione proprio contro chi sostiene la famiglia, e nessuno invece se la senta di dire qualcosa in suo favore, tranne il Papa e la Chiesa.

D’altronde, è sempre più difficile capire quale finalità possa esservi in chi cavalca oggi queste crociate insensate in nome di diritti che non esistono se non nella radicale privazione di altri diritti più importanti, incomprensibilmente sottratti ad alcuni minorenni. Mi rendo conto che c’è una buona dose d’impopolarità a dire quel che dico. Ma, nel migliore dei casi, dichiarare la verità è innanzitutto esprimere liberamente un valore. E, nel peggiore dei casi, è per lo meno evitare di dire sciocchezze.


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