Quella di ieri, mercoledì 20 novembre dell’anno di grazia 2013, è stata una giornata che ha impartito una lezione formidabile al renzismo e alle anime belle del Pd.
La realtà effettuale della storia, direbbe Benedetto Croce, si è presa una rivincita definitiva sui romantici teorici del dover essere.
I fatti. Il Movimento 5 Stelle propone una mozione di sfiducia individuale per il Ministro della Giustizia, Annamaria Cancellieri, protagonista di telefonate non propriamente istituzionali con esponenti dell’inquisita famiglia Ligresti. Non c’è reato, ma solo una questione di opportunità: è vero che in un Paese normalmente rispettoso del decoro, la ministra si sarebbe già dimessa. Ma a difesa della Cancellieri intervengono simultaneamente il Capo dello Stato e il Presidente del Consiglio. Il motivo, si legge sui giornali, risiede nella difficile configurazione del quadro politico. Uno: Berlusconi fa parte della maggioranza; due: Berlusconi non ha ministri (sono tutti alfaniani); tre: se salta il ministro della Giustizia, Forza Italia lo rivendicherà e sarà impossibile rispondere con un rifiuto; quattro: a poco vale l’annunciato voto contrario di Brunetta alla legge di stabilità: se torna in ballo una casella ministeriale, quel voto può al contrario diventare oggetto di imbarazzante trattativa; cinque: fra una settimana il Senato potrebbe votare la decadenza di Berlusconi. Se il Cavaliere sarà fuori dal governo, si potranno ridurre al minimo i danni; se invece alla sua caduta si accompagnassero le dimissioni di un ministro appena insediato, la crisi politica si tradurrebbe immediatamente in crisi di governo. Dinamite pura, questo sembra si sia commentato nelle stanze del Quirinale.
Chiaro il tentativo del Movimento 5 Stelle di mettere in difficoltà il Pd; altrettanto chiara l’intenzione berlusconiana di chiedere la fiducia per la Cancellieri confidando in segreto che sia il partito di Epifani a spalancare la porta del governo a un cavallo di troia imbottito di tritolo.
Il vecchio e benemerito cinismo togliattiano, fino a ieri incarnato da Massimo D’Alema, non avrebbe avuto dubbi. Un partito che aveva accettato il concordato, non si sarebbe sottratto al compito politico di congelare la situazione fino al voto sulla decadenza di Berlusconi, previsto per il 27 novembre.
La discussione fra gli eletti del Pd perviene invece a vette di surreale ipocrisia difficilmente raggiungibili anche in Italia. Alla fine, Epifani e Cuperlo si assumono l’ingrato compito di portare i gruppi parlamentari su una posizione impopolare ma necessaria per non fornire un assist a Berlusconi: non si vota la sfiducia. Civati, unico a non comprendere la natura della posta in gioco, fa la sua battaglia, mentre Renzi ripete il ritornello: “se fosse lui Segretario ecc ecc”, lucrando oggettivamente sul fatto che la faccia la mettono Letta, Epifani e Cuperlo. Vien fatto quel che va fatto, ma il prezzo politico, dentro il Pd, non sarà il Sindaco di Firenze a pagarlo.
La lezione però è formidabile, anche se a futura memoria. Perché “al posto di Epifani” anche lui si sarebbe piegato alla dura legge della politica. E le sue critiche di oggi e di ieri a Massimo D’Alema non lo esimeranno dall’obbligo di imitare il rottamando leader nel difficile compito di condurre il vascello della sinistra anche con tecniche di navigazione non previste dai manuali di bordo delle anime belle.
Ultimo insegnamento, non meno importante: il discredito è un’arma pericolosa. Può essere un boomerang letale, se si deride il vecchio gruppo dirigente e poi, necessariamente, non ci si può astenere dall’adottarne il saggio e adulto cinismo.