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Ecco la lezione di Kennedy che l’Occidente ha dimenticato

La lezione più importante di John Kennedy è che il futuro va plasmato con le nostre spe­ranze razionali, non con le nostre paure. Egli era il primo a rigettare le speranze infonda­te dei sognatori di professione. “Non credo – diceva – nel concetto assoluto, infinito di pace universale e buona volontà di cui alcuni fanatici fantasticano o sognano. Non rifiuto valore a speranze e sogni, ma rischiamo di indurre scoraggiamento e sfiducia se ne fa­cessimo il nostro unico e immediato obietti­vo”. Ma egli era anche in grado di vedere le cose come sono e di chiedere “Perché no?”.

LE SFIDE DI UNA GENERAZIONE
Quali altre lezioni apprendiamo dalla sua leadership e quali possiamo applicare al no­stro tempo? Ci ispira, di Kennedy, il ripe­tuto richiamo a che ciascuna generazione accolga le grandi sfide del proprio tempo. Egli apprezzava le cause del suo tempo, specialmente la difesa della libertà. “Non credo – disse – che nessuno di noi voglia scambiare posto con qualunque altro Paese o qualsiasi altra generazione”. In tutti i suoi discorsi il senso della sfida è chiaramente delineato: “Prendiamo posizione qui, ora” diceva. Quando guardiamo all’energia e alla fiducia che Kennedy metteva nel risolvere i problemi, siamo spinti a fare lo stesso di fronte alle difficoltà e complessità del nostro tempo. Egli sapeva anche che la visione non era sufficiente, e che una chiamata generica alla pace e alla buona volontà non avrebbe portato a molto.

UN UOMO CONCRETO
Egli parlava “in questo tem­po e in questo luogo” di problemi specifici: la pace, i rapporti tra le razze, la corsa alla Luna. Ci ha dato il migliore consiglio che io conosca, un consiglio che ammiro tanto da ripetere spesso: “Definendo in modo più chiaro il nostro scopo, facendolo apparire più gestibile e meno remoto, aiuteremo tutti i popoli a vederlo, a trarne lezioni di speran­za, e a muoversi inarrestabilmente verso di esso”. Obiettivi chiari sono fondamentali per molti motivi: possono creare obiettivi con­divisi, aiutare a specificare i mezzi, e unire l’opinione pubblica nell’azione. Definire gli obiettivi è in realtà il singolo più importante compito della leadership, perché senza di essi non vi può essere altro che cacofonia. Il segretario di Stato George Marshall affer­mò che “la nostra politica non è diretta con­tro questo o quel Paese, questa o quella dot­trina, ma contro la fame, la povertà, la disperazione e il caos. Il suo obiettivo dovrebbe essere il rilancio di un’economia funzionan­te nel mondo, per permettere l’emergere di condizioni politiche e sociali in cui crescano le libere istituzioni”.

LA PROSPERITÀ COME ARMA
I leader americani del tempo erano perfettamente consapevoli del fatto che i bolscevichi erano saliti al potere nel 1917 nel contesto del caos economico del loro Paese, e che Hitler era diventato cancel­liere nel 1933, in una Germania con il 25% di disoccupazione. Questa lezione fondamenta­le è stata trascurata dalle ultime generazioni di politici. I conflitti di oggi sono soprattutto in Paesi poveri o economicamente instabili. Si pensi al Mali, alla Somalia, allo Yemen e all’Afghanistan, quattro delle più povere economie mondiali, e gli Stati Uniti sono ora impegnati in azioni coperte o scoperte in tutte e quattro le nazioni. L’intervento occidentale in questi luoghi è stato quasi in­teramente militare, anche se i problemi sot­tostanti raramente possono essere risolti mi­litarmente, e praticamente mai col solo uso della forza. Sembra che ci sia ben poco, nella politica occidentale, fra questi due estremi: l’oblìo completo, seguito dal panico e dai droni. Se si guarda alla mappa delle zone di conflitto del mondo, si rimane colpiti dalla misura in cui sono concentrati nelle aree aride e semiaride di Africa e Asia, un arco di terra di 10mila miglia che va dal Senegal all’Afghanistan, attraverso il Sahel, il Corno d’Africa, la Penisola araba, l’Asia occidentale e l’Asia centrale.

SVILUPPO E PACE
Ritengo che in quest’area l’estremismo islamico sia più un sintomo che una causa. E che una delle sue ragioni profonde è la povertà in un contesto di forte stress ambientale, di pressioni demografi­che, di ridotte precipitazioni e di sempre più frequenti siccità e fame. Riconoscendo che lo sviluppo economico è fondamentale per la pace e la democrazia, Kennedy lanciò i Corpi della pace, l’Allean­za per il progresso in America latina e altri programmi di sviluppo in altri luoghi del Terzo mondo. Nel suo discorso inaugurale, si rivolse ai popoli nei “villaggi e nelle capanne di tutto il globo, che lottano per spezzare le catene della miseria di massa”. Rilanciare gli aiuti allo sviluppo come pilastro della nostra politica estera – risparmiando così denaro, vite umane e futuri dispiaceri – richiedereb­be dunque un cambiamento nella mentalità americana.

UNA NUOVA POLITICA
Gli americani devono capire che le nazioni povere, anche quelle che appaio­no chiaramente come “nemiche”, rispondo­no positivamente all’aiuto pratico nel campo della salute, dell’istruzione e delle infrastrut­ture, quando questo viene dato apertamente e generosamente. Oltre a fornire un aiuto pratico e talvolta necessario a salvare vite, questi aiuti segnalano il rispetto umano e il riconoscimento di una comunanza di in­teressi tra i popoli. Gli aiuti guidati dalla lo­gica dello sviluppo sostenibile riporteranno l’America al vero problem solving, quel tipo di postura che una politica basata sui droni non potrà mai conseguire. Se usiamo la no­stra scienza, tecnologia ed esperienza nello sviluppo per sostenere la sfida dello svilup­po economico di base nei luoghi disperati del globo (dal Mali alla Somalia, dallo Ye­men all’Afghanistan), il nostro stesso Paese ne trarrà grande beneficio. Conquisteremo alleati, partner commerciali, amici e soste­nitori nei villaggi e nelle città dell’Africa e dell’Asia, e per giusti motivi. Sappiamo che questi compiti sono grandi, ma sono anche grandi i gesti della leadership che ci ispira e ci incoraggia su questo cammino. Abbiamo dalla nostra parte la lezione dell’iniziativa di pace di John Kennedy, e il dono delle sue pa­role per il nostro tempo e oltre. Non siamo in preda a forze che non possiamo controlla­re. Possiamo anche noi essere grandi quanto vogliamo. Anche noi possiamo prendere posizione, e muovere il mondo.

Tratto dal numero di Formiche di novembre 2013 (n. 86)

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