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Barbareschi in Something good tra sentimento e contraffazione alimentare

Ci sono molti modi di fare politica. Da sempre uno di quelli più efficaci è scrivere e mettere in scena delle opere d’arte convincenti. D’altronde, chi ha ingenuamente pensato che la politica si faccia soltanto sugli scranni del Parlamento può sicuramente trovare una prova valida del contrario, guardando alcuni film del passato che hanno fatto storia, che hanno cambiato non solo l’immaginario ma il pensare comune. Ciò è vero anche oggi malgrado sia diventato sempre più difficile imbattersi in cultura di qualità perché il mercato premia quello che garantisce giustamente una vendita assicurata a chi investe in costose produzioni.

Un buon compromesso tra profondità del messaggio e attenzione all’aspetto commerciale è certamente il film Something good, scritto, diretto e interpretato dall’istrionico Luca Barbareschi. La pellicola, prodotta da Casanova Multimedia e Rai Cinema, affronta, infatti, un delicato tema, quello della contraffazione alimentare, in grado, al pari delle disastrose nefandezze ambientali, di rivelare efficacemente le radicali contraddizioni disumane dell’odierno sistema economico globalizzato.

Il protagonista, interpretato proprio dal convincente Barbareschi, è un affarista che fa soldi a non finire, in modo spregiudicato e cinico, vendendo cibi adulterati per conto di un gruppo di Hong Kong. Niente sembra mettere in discussione i suoi obiettivi tranne l’ambizione. In tal senso la sua filosofia di fondo è il manifesto dell’individualismo contemporaneo del guadagno fine a se stesso, ancorato alla dura legge del profitto che sovrasta e piega ai suoi obiettivi ogni cosa, anche il diritto umano fondamentale di veder garantita la sicurezza comune di mangiare senza rischi di avvelenarsi o morire.

Alla sua parabola biografica si affianca, però, quella di una giovane donna, Xiwen, la quale ha perso il suo unico bambino, Shitou, avvelenato proprio da un alimento adulterato, e che da allora si è dedicata alla cucina di qualità nel proprio piccolo e indebitato ristorante. Le due vite s’incrociano determinando una variazione improvvisa nel destino opposto che sembra guidare la vita di entrambi. Marco, infatti, troverà la consapevolezza e, in senso traslato, la redenzione attraverso l’amore per lei, mentre lei si libererà dalla propria tragedia umana ed economica attraverso l’inatteso incontro con il conturbante uomo italiano.

Il significato ultimo, che rende quest’opera cinematografica degna di attenzione e di apprezzamento, è non soltanto lo stile e la fotografia, dinamici e curati, ma il valore che assume nella vicenda la complessità dei fattori umani che concorre realmente a determinare le vicende generali della vita di ciascuno. Il fine positivo non è tanto l’epilogo in sé, quanto piuttosto l’impossibilità che la legge dell’affare e del denaro resti l’unico elemento assoluto che muove la libertà delle persone ad agire bene o male.

Al di là, insomma, di una sceneggiatura non sempre all’altezza del soggetto originario, l’opera letteraria Mi fido di te di Francesco Abate e Massimo Carlotto, è impossibile non apprezzare l’afflato etico sotteso e la potenza che ha l’umanità delle persone nel resistere liberamente all’insieme degli interessi economici giganteschi che muovono gruppi industriali a mettere cibi mortali nel mercato unicamente per mietere guadagni illeciti e criminosi. A opporsi, difatti, non è un contropotere politico ma la coscienza morale dei protagonisti, travolta dall’intreccio sentimentale.

Insomma, non solo l’amore vince, ma non si lascia condizionare dall’utile, sacrificando a esso la felicità. Una conclusione non priva, quindi, di motivi per una profonda riflessione politica, sebbene, com’è giusto, priva di un melenso lieto fine.

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