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Ecco le ricette per far ripartire l’Italia. Parlano Abete, Cipolletta e Poletti

Un Paese gravato da un enorme debito pubblico ma forte di un grande patrimonio privato, che registra consumi in calo e un aumento dei depositi. Penalizzato da un’elevata evasione fiscale e incapace di neutralizzarla, con un’intollerabile disoccupazione giovanile ma con un’occupazione adulta superiore alla media europea. Un Paese nel quale il Comune di Roma è sull’orlo della bancarotta mentre aumenta il flusso turistico nella Città Eterna.

È un ritratto dell’Italia chiamata a fronteggiare la crisi economico-sociale più grave della propria storia e a cogliere i primi segni di ripresa mondiale. Per capire come coniugare le ricette avanzate in sede teorica per promuovere la crescita produttiva e le scelte politiche, il giornale on lineIl diario del lavoro” diretto da Massimo Mascini e coordinato da Nunzia Penelope ha promosso ieri al Tempio di Adriano di Roma un convegno dal titolo “Le vie del futuro non sono finite”, che ha visto confrontarsi economisti, imprenditori, rappresentanti sindacali.

PARLA LUIGI ABETE

È Luigi Abete, presidente di BNL-BNP Paribas, a rilevare l’urgenza di cogliere le opportunità di modernizzazione fino a oggi mancate, per restare nel gruppo di testa dei Paesi più evoluti: “Legge elettorale in grado di garantire un autentico vincitore forte di una legittimazione popolare. Una burocrazia capace di assicurare termini perentori e vincolanti per i propri atti, e di imporre a dirigenti e funzionari regole fondate su merito, responsabilità e mobilità”. Requisiti su cui, rimarca l’imprenditore, è possibile una crescita ragionevole attorno al 2 per cento, che deve orientarsi verso la promozione globale del made in Italy e verso l’accoglienza di chi viene nel nostro paese per le sue ricchezze peculiari.

Obiettivi a suo giudizio favoriti da un buon livello di internazionalizzazione, competitività ed efficacia delle imprese italiane, il cui export, valido 852 miliardi di euro, è aumentato nei paesi extra-europei a fronte di una riduzione dell’import del 10 per cento. “E si tratta di comparti che spaziano dall’alimentare alla componentistica di precisione, dalla meccanica alla moda”. Le iniziative da assumere, spiega il banchiere, prevedono garanzie finanziarie adeguate da parte degli istituti creditizi per le aziende concorrenziali e proiettate verso il mondo. Mentre per sostenere il reddito delle famiglie e da lavoro “è sbagliato gonfiare artificialmente i consumi, perché la via maestra passa per gli investimenti produttivi, privati e pubblici”.

LE PROPOSTE DI INNOCENZO CIPOLLETTA

Piena consonanza con la riflessione di Abete emerge nelle parole di Innocenzo Cipolletta, presidente del Fondo italiano di investimento (partecipato dalla Cassa depositi e prestiti) e direttore generale di Confindustria quando il numero uno di BNL nei ricopriva la presidenza. Nel nostro Paese, ha spiegato Cipolletta, non viene considerata nel giusto valore la proiezione internazionale del tessuto imprenditoriale, la propensione a calibrare sulle esigenze del cliente un prodotto manifatturiero, tessile o meccanico: “Fattori che coinvolgono una quantità e una qualità superiore di lavoro. Un modello di crescita che comprende in sé molteplici mansioni, competenze, specializzazioni. Accrescendo il contributo occupazionale per ogni unità di PIL prodotto”. Per promuovere consumi e domanda interna, la sua ricetta è precisa: “In Italia esiste un enorme patrimonio immobiliare, che non produce ricchezza né circuito produttivo. Anziché farlo restare fossilizzato, potremmo, come in altri Paesi europei, obbligare i proprietari a ristrutturazioni edilizie e riconversioni energetiche che riguardano beni di rilevanza collettiva”.

I CONSIGLI DI ASSTEL

Ben diversa la strada indicata da Cesare Avenia, presidente di Asstel, l’organizzazione che in Confindustria rappresenta le imprese della tecnologia dell’informazione: “Abbiamo voluto proporre l’obiettivo prioritario dell’agenda digitale e della banda larga. Riscontrando resistenze e ostacoli di ogni tipo, così come evidenziato con la miriade di balzelli imposti sull’e-commerce. Sono i mille veti frapposti dai detentori e beneficiari del posto di lavoro analogico all’avvento alla rivoluzione telematica, in cui a valere non è il monte ore accumulato bensì l’apporto di qualità e idee del lavoratore”.

I CONSIGLI DI POLETTI

Una terza direzione viene prospettata da Giuliano Poletti, presidente dell’Alleanza delle cooperative. Per il quale la crisi che ha prodotto una sperequazione intollerabile della ricchezza, sul piano economico prima che etico, “non si risolve con misure fiscali di redistribuzione ma con un pluralismo produttivo che superi la tradizionale dicotomia Stato-mercato”. Rivendicando alla formula cooperativa il valore della “equa produzione della ricchezza”, il rappresentante dell’imprenditoria mutualistica ricorda come “grazie alla spending review possiamo far co-agire sociale, aziende e istituzioni a livello più decentrato possibile, favorendo la creazione di opportunità molecolari produttive sul territorio”. Poi esorta a riformare i contratti di lavoro mettendo al centro il rapporto tra persona e prodotto della sua attività, attuando la nozione di partecipazione economica responsabile”.

L’ANALISI DEGLI STUDIOSI

Fortemente critica verso le scelte compiute dalla classe dirigente, è la disamina degli studiosi intervenuti nel convegno. Maurizio Del Conte, giuslavorista dell’Università Bocconi di Milano, punta il dito contro la riflessione, le ricette e le leggi sul lavoro prevalse negli ultimi vent’anni: “Tutte focalizzate sulla flessibilità in entrata e in uscita. Sulla circolazione e non sulla produzione del lavoro. Su regole accusate di essere troppo rigide, un ostacolo al funzionamento efficace del mercato. Non sul lavoro in sé”. Energie, attenzione, intelligenza, analisi, ricerche culturali e politiche, spiega lo studioso, sono state disperse sulla riduzione del costo del lavoro, senza guardare dentro il lavoro: rimasto inalterato da decenni nell’organizzazione e funzionamento. Tema che coinvolge il contenuto dell’attività lavorativa, il prodotto da vendere. E le relazioni industriali: “La cui modernizzazione avrebbe potuto migliorare il livello di prestazione delle aziende e richiamare gli investimenti produttivi internazionali. Elementi assenti nella riforma messa a punta da Elsa Fornero”.

Fedele a un’ottica liberale-liberista, Riccardo Puglisi, economista dell’Università di Pavia, mette in rilievo i ritardi storici irrisolti che gravano sulle prospettive dell’economia italiana: “L’incertezza del diritto. Una scarsa produttività del tessuto imprenditoriale che non è stata accelerata dalla rivoluzione tecnologica e informatica. E il macigno del debito pubblico”. Che richiederebbe a suo avviso una lotta generazionale assente finora dal panorama mediatico, “visto che risale nel tempo a scelte precise e si riflette oggi nel pagamento obbligatorio degli interessi. E si può affrontare solo con un intervento radicale e di lungo periodo di riduzione della spesa pubblica”.

LA VERSIONE DEL SINDACATO

Terapia da cui dissente Anna Rea, segretario confederale della UIL. La quale rifiuta di cercare “nel pubblico impiego e nella necessaria mobilità dei lavoratori della PA, nelle aziende partecipate dagli enti locali, nelle provincie, nel mercato del lavoro e nella previdenza un capro espiatorio della crisi”. Allo stesso modo l’esponente sindacale ritiene miope ridurre il debito pubblico esclusivamente sul fronte della spesa, senza agire per far crescere il denominatore del rapporto europeo: il PIL. Finalità per la quale “si rendono necessari investimenti pubblici mirati e una relazione industriale moderna. Che in Germania ha prodotto 8 milioni di mini job, ristrutturazione condivisa delle grandi aziende metalmeccaniche, riduzione delle tasse su lavoro e imprese, produttività e competitività industriale”.



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