“Questi porci schifosi li appenderei solo a testa in giù”: parole della ragazza che ricopriva di baci il giovane poliziotto, ma erano baci d’odio, ha rilevato Carlo Rognoni, su “l’Unità”, correttamente: avrebbe preferito vederlo appeso, dunque, ma ha deciso di inscenare quella provocazione, confidando nell’impeccabile addestramento del ragazzo, che ha conservato la propria impassibilità, la freddezza che è necessaria, requisito primo del suo mestiere, riuscendo laddove altri suoi colleghi, altre volte, hanno fallito: altri, altre volte; non lui, non stavolta.
L’immobilità dei carnefici, gli occhi delle vittime: ma càpita che queste, poi, si travestano, improvvisamente, che nascondano i propri occhi deboli e che adottino maschere via via più subdole, giorno dopo giorno. Nel compiere un gesto detestabile, protetti dalle regole altrui che impongono di non reagire, di mantenere il contegno che è dovuto, ci si premunisce, e si presenta la vigliaccata di oggi come la vendetta conseguente di qualcosa che è successo ieri, si va a ripescare un accadimento lontano, una volta in cui un’amica sarebbe stata “picchiata e molestata dalle forze dell’ordine”: chi erano? Altri: non lui, non quel ragazzo. Ma quel ragazzo ha – anzi, è – una divisa, ed equivale a tutti gli altri, allora, e siamo spacciati, noi come i tanti che, decennio dopo decennio, non smettono di mimare la guerra, e si mettono a mimare l’amore, infine: questa nostra malattia endemica, italiana, non è altro che l’appendice regionale di qualcosa di più vasto, di quel risentimento che, secondo un filosofo troppo noto e poco annotato, costituirebbe l’autentica specificità europea.
Centro propulsore, l’Europa: si potrebbe legittimamente sostenere che siamo stati addirittura capaci di esportare questa nostra pervertita e degenere variante della cura di sé greca al di là dell’Atlantico, che gli americani non conoscessero il risentimento, che la loro critica sociale si abbeverasse ad altre fonti: basti pensare a gente come Emerson, a Thoreau, a quei ruvidi disobbedienti che, da noi, non hanno potuto e non potranno trovare orecchie disponibili all’ascolto. Perché? Proprio in virtù del loro essere difensori e cantori dell’ideale della responsabilità individuale, che garantirebbe una dose di libertà difficilmente gestibile, per noi, abituati a frignarci addosso e dispostissimi a barattare, al più presto, la nostra libertà con il pregio dell’irresponsabilità. Allora, meglio sciogliersi nei grandi numeri, ricercare un’identità che sia quanto più “sociale”, abdicare al proprio volto.
Continuiamo ad aver paura, a non voler tematizzare la questione radicale, cioè quella che denuda le radici del nostro convivere democratico: la questione della folla. Di che cosa parliamo, quando parliamo di democrazia? Della forma più elitaria di governo: giustamente elitaria. Sono i totalitarismi a proteggere la folla, a preoccuparsi di difenderla dalle minoranze. Il messaggio democratico, al contrario, non può che essere questo: non lasciare solo l’uno, il singolo, la minoranza estrema.
Un ragazzo che trema, impotente, fronteggia una ragazza che mima e sbeffeggia l’amore, mossa dai fini più osceni, quelli “politici”, e viene applaudita, spalleggiata, incoraggiata dai suoi simili, che sono tanti. Io so chi ho intenzione di difendere, apprezzo lo specchio che mi riflette, so che non voglio sbeffeggiare me stesso.