Del Terzo Settore attore di lobbying in Italia ho già scritto qualcosa (Qui). Qualche numero, per ricapitolare:
– in 10 anni è cresciuto del 28%;
– ci sono 5,7 milioni di cittadini che, tra volontari, stipendiati e collaboratori ci lavorano;
– le no profit sono Oltre 300mila, ben distribuite sul territorio. Il primato spetta al nord, che ha 65 enti ogni 10mila abitanti. Segue il Meridione (con il 26,3% del totale) e il Centro.
– 40% di loro dichiara nel 2012 di aver ricevuto donazioni in linea con quelle dell’anno precedente. E questo è successo perché sono aumentati i flussi di donazioni (+6,8% dal 2008 secondo Unicredit-Ipso) e l’autofinanziamento degli associati (+6,4%).
Insomma, un ottimo biglietto da visita. Ma quanto è utile per fare lobby? Non troppo. Con gli studenti della Bocconi ne abbiamo parlato lunedì 11 novembre, durante la lezione del corso in Lobbying e Democrazia (Qui). Ci sono almeno tre spunti da considerare:
– Primo, il TerzoSettore ricorre meno al lobbying tradizionale e più a quello “virale”. Fa cioè in modo di sensibilizzare il maggior numero di persone sulle cause per cui si batte. Usa poi i numeri a proprio favore, per dimostrare di difendere un messaggio condiviso. Ed è una tendenza che fa proseliti anche tra le aziende (con risultati non sempre eccellenti, come nel recente caso #Guerrieri di Enel). La viralità è un punto di forza. Ma va controllata. Se sfugge di mano è pericolosa. Successe così con la campagna di Invisible Children Kony2012. Partiti benissimo, divennero presto il centro delle accuse di pressappochismo e leggerezza nelle informazioni offerte.
– Secondo, il TerzoSettore lobbista gode di una rendita di posizione e soffre un handicap congenito. La rendita è nello scopo sociale. A differenza di un’impresa, anche la più equa e solidale di tutte, l’ente no profit che si impegna su temi sociali, ambientali o civili è in posizione di vantaggio rispetto ai competitors aziende. E lo è perché, a differenza di quelle, difende un interesse “pulito”. Al tempo stesso, tuttavia, soffre un handicap. Non produce beni tangibili, quindi non è in grado di diventare competitivo sul mercato. Questo significa che senza un buon fundraising non va molto lontano.
– il Terzo punto è proprio il Fundraising. Punto di forza del TerzoSettore, ma anche necessità. La professione diventa sempre più specializzata al punto che qualcuno la invoca anche per la politica. Una recente ricerca del think tank partenopeo Competere ha svelato proprio questo: troppo pochi i partiti che fanno ricorso a fundraiser professionisti. Questi ultimi li trovi quasi solo nelle no profit.
Ci sarebbe un quarto punto, e riguarda il rapporto tra cittadini e TerzoSettore. Ma ne parleremo più avanti. Ecco intanto l’infografica con numeri e cifre: