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Scontri hooligans in Polonia. Siamo riusciti ad esportare l’odio e la violenza

Un tempo esportavamo creatività, design, fantasia, cultura e artigianato, pur nella diversità di un territorio composto da oltre 8 mila comuni (quindi 8 mila modi diversi di intendere la vita e tutto ciò che la circonda), ma eravamo un paese vero. Un paese di gente per bene. Se vi ricordate si amava dire “Italiani brava gente”. Poi, dagli anni ’90 ad oggi c’è stato un lento, ma inesorabile declino, a livello culturale (in primis) e poi anche a livello economico e politico.
Tutti i gangli della nostra società sono stati contagiati dal virus della ricerca della “strada più breve”. E quando si imbocca questa strada tutto si sgretola come un vecchio palazzo. Abbiamo perso la nostra identità, il nostro modo di essere comunità. Ci siamo trasformati prima in super-individualisti, poi in “bande”.Di destra o di sinistra, e questa filosofia ha permeato, purtroppo, anche il sistema calcio. Le curve degli stadi sono diventate, non sempre ma in molti casi sì, le “officine” per la cultura dell’odio o della violenza più in generale. Un porto franco dove potersi sfogare senza cbe nessuno possa intervenire in alcun modo. Chi tifa l’altra squadra, poi, è un nemico potenzialmente da eliminare, non un “avversario” da rispettare.
Tutti contro tutti, con l’alibi della fede calcistica. Una divisa di servizio da indossare per recitare il ruolo di “finti” buoni nella curva sotto casa. Poi, l’ulteriore salto di qualità: i gruppi ultras (sono ben 41 mila in Italia, praticamente un esercito) hanno iniziato a fare business (anche in settori non proprio leciti, come il sottobosco, se così vogliamo chiamarlo delle scommesse sportive illecite), a frequentarsi, ad allearsi contro il cosiddetto “palazzo del calcio”, ad essere persino invasivi e invadenti nelle scelte dei presidenti di calcio, che, però, stranamente, a parte Claudio Lotito (numero uno della SS Lazio), non hanno mai denunciato nessuno. Tutti sanno chi sono i violenti, ma è meglio non parlarne, hai visto mai!
Meglio girarsi e far finta di nascondere la polvere sotto il tappeto, piuttosto che portare il tappeto in lavanderia.

Ieri, abbiamo assistito ad un nuovo spettacolo indecoroso di alcuni gruppi di tifosi italiani in Polonia, in occasione del match di Europa League tra SS Lazio e Legia Varsavia (tentativi prontamente bloccati dalle forze dell’ordine locali, ma in Polonia c’è uno Stato vigile e severo, a differenza del nostro). Per la prima volta gruppi di supporter tricolori (di fede biancoceleste) sono stati “fermati” all’estero per bravate in stile “hooligans”. Evidentemente è l’unica cosa (ad eccezione di qualche eccellenza del made in Italy) che riusciamo ad esportare. Una miseria reale, di cui ci vergogneremo per molto tempo.

Ma il “cameo” finale di questo editoriale è una storia domestica, che non ha trovato eco sui giornali italiani/romani, pur non inferiore per gravità a quella di ieri a Varsavia (in termini concettuali).
Pochi sanno infatti che, martedì scorso, si è svolta una gara di C2 di calcio a cinque tra una rappresentativa del centro sportivo Futbol club e una squadra di Marino, nell’entroterra laziale. Una gara che non doveva essere disputata (perché altamente a rischio) e che si è svolta non tanto per l’impegno dei vertici federali di categoria o dello sport in generale (seppur tutti allertati), ma per l’interesse civico di una parente di uno dei giocatori di calcetto, che ha prontamente pre allertato il vice-questore Massimo Improta (e a cascata il questore Fulvio Della Rocca). La squadra romana è stata scortata fino a Marino, con le forze dell’ordine di questa cittadina già schierate di fronte allo stadio. Una sfida in stile OK Corral, eppure è solo pallone. E’ importante ricordarlo.

L’alternativa era “rischiare” di andare non scortati, ma ci poteva scappare il morto, visto che sei anni fa uno degli atleti della rappresentativa capitolina fu preso a calci e pugni in faccia, rischiando anche la vita (ed oggi è rimasto con danni permanenti sul corpo nel silenzio più totale dei dirigenti dell’epoca).
Insomma, ad esclusione della polizia e della “figura” del dirigente Improta, del mondo del calcio (sempre molto proteso a tagliare nastri e a magnificarci di splendidi progetti che non hanno mai seguito) neppure l’ombra.

Praticamente “non pervenuti”, perché, nel nostro paese, se c’è da prendere una medaglia o una poltrona c’è la ressa, ma se c’è da prendersi una responsabilità o risolvere un problema tutti fanno finta di non vedere o peggio ancora di non capire. Un film già visto cento volte, di cui, purtroppo conosciamo il finale e ne siamo sinceramente nauseati.


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