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Non solo Vatileaks, tutte le magagne storiche del governo vaticano

Ai tempi di Giovanni Paolo II, non c’erano maggiordomi che trafugavano documenti dalla scrivania papale per girarli a qualche giornalista, facendoli uscire dai sacri palazzi. Tutto questo, dai corvi di Vatileaks ai dossier secretati rinchiusi nella cassaforte papale, accadeva negli ultimi anni del tormentato pontificato di Benedetto XVI, talmente stanco e provato fisicamente da compiere lo storico passo della rinuncia al Soglio.

Ma non è che prima dell’elezione del teologo tedesco, nel 2005, la curia romana fosse un Eden, un paradiso terrestre, un nido d’amore e concordia. A fare qualche esempio di difetti alla macchina di governo della Santa Sede è il cardinale polacco Stanislao Dziwisz, nel suo ultimo libro frutto di una conversazione con il vaticanista di lungo corso Gian Franco Svidercoschi.

La contrarietà al “pericoloso” Romero

Due sono in particolare i fatti che l’arcivescovo di Cracovia, per quarant’anni segretario di Giovani Paolo II, rievoca per spiegare che spesso la burocrazia vaticana non teneva aggiornato il Papa su fatti e situazioni che avvenivano nell’episcopato mondiale. Il caso più lampante è quello relativo a Oscar Romero, arcivescovo di San Salvador dal 1977 al 1980, quando fu assassinato durante la messa, nell’atto di elevare l’ostia. In curia, ricorda Dziwisz, c’era aperta contrarietà per le prese di posizione del prelato, dalla sua difesa dei poveri alle vittime dei soprusi delle attività del regime. Romero veniva visto come un pericolo, un appartenente alla teologia della liberazione influenzato dalle teorie di Jon Sobrino.

La curia che non informa il Papa

Svidercoschi, come riporta anche Catholic News Agency, ricorda che “quando Romero venne a Roma, consegnò a Giovanni Paolo II le sue memorie”. Facendo ciò, l’arcivescovo salvadoregno gli disse: “Per favore, mi giudichi sulla base della mia testimonianza, non su ciò che le è stato detto su di me”. Dopo quell’incontro, prosegue il vaticanista, Karol Wojtyla fu persuaso dagli argomenti di Romero, al punto che da quel momento l’avrebbe sempre difeso dalle bordate della curia romana. L’ostilità delle alte gerarchie per il prelato latinoamericano derivava da quello che veniva percepito come un “errore” di valutazione da parte dei nunzi nella fase di selezione di Romero come vescovo. Solitamente, precisa Svidercoschi, a passare il vaglio dei diplomatici vaticani sono moderati se non apertamente conservatori.

Il lamento di Romero con Paolo VI

E così era anche Oscar Romero, che “cambiò completamente atteggiamento dopo l’assassinio di un suo amico gesuita, padre Rutilio Grande. Da quel momento, non ebbe timore a parlare, a denunciare i soprusi del governo”. Le conseguenze furono durissime: chiese occupate dall’esercito, eccidi di fedeli. Anche per questi episodi, “alcuni alti funzionari cattolici, spaventati dalle possibili conseguenze”, protestarono. Ecco perché molti passaggi dei discorsi, delle catechesi e delle omelie dell’arcivescovo sarebbero state volontariamente taciute a Giovanni Paolo II, al fine di non dare troppa visibilità a quel pastore che urlava contro il governo. Della situazione, Romero parlò anche con Paolo VI, che lo ricevette in Vaticano nel giugno del 1978: “Lamento, Santo Padre, che nelle osservazioni presentatemi qui in Roma sulla mia condotta pastorale prevale un’interpretazione negativa che coincide esattamente con le potentissime forze che là, nella mia arcidiocesi, cercano di frenare e screditare il mio sforzo apostolico”.

Il caso di padre Marcial Maciel

Anche il secondo esempio illustrato dal cardinale Dziwisz è delicato, e si riferisce al rapporto tra il Papa polacco e padre Marcial Maciel, il fondatore dei Legionari di Cristo accusato di numerosi casi di abusi sessuali su seminaristi – e per questo allontanato dalla chiesa – e definito da Benedetto XVI “un falso profeta che ha condotto una vita al di là di ciò che è morale”. Anche in questo caso, Wojtyla “non era stato sempre informato della situazione, comprese le indiscrezioni che circolavano sul conto di Maciel”. Se fosse stato messo al corrente di tutto ciò che si diceva sul suo conto, probabilmente non avrebbe mai acconsentito a incontrare il fondatore dei Legionari nel 2004, a Roma.


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