Skip to main content

Benvenuti a Prato, regno del nuovo schiavismo nella civilissima Italia

La tragedia di Prato – sette morti avvolti dalle fiamme in una cosiddetta fabbrica tessile che aveva tutte le caratteristiche di una prigione, comprese le sbarre alle finestre – richiama alla memoria le storie di ordinario schiavismo che nel mondo ritenuto sottosviluppato è praticato senza destare scandalo, nel tempo della retorica dei diritti umani e delle battaglie cartacee per la salvaguardia della dignità delle persone.

Nella civilissima Italia, nel cuore della nazione, laddove la civiltà fioriva rigogliosa nei secoli che pur definiamo per ignoranza “bui”, cinesi clandestini vivono, lavorano, producono manufatti a bassissimo costo e ad altissima resa economica, sopportano sfruttamento, umiliazioni e privazioni per racimolare un modesto gruzzolo che gli consenta in pochi anni di tornarsene in patria lasciando magari in quel lembo di Toscana i loro figli perché perpetuino l’indecenza dello schivismo programmato. Clandestini loro, consapevoli noi. Infatti Prato da anni è una città cinese. Ma non ci risulta che nessuna autorità abbia posto fine allo sconcertante fenomeno dell’immigrazione illegale in quella città dove si arriva e si scompare nei tuguri che pur si conoscono, ma che nessuno prova ad espugnare.

Fiorisce, si fa per dire, una comunità autoctona, un’economia separata, uno stile di vita inassimilabile ed impenetrabile: gli italiani sono gli “stranieri” a Prato. E se qualcuno prova a rompere l’ “equilibrio” che nel tempo vi si è consolidato, è ritenuto paradossalmente  intruso,  “clandestino”.

Nei loculi in cartongesso, laboratori e dormitori al tempo stesso, si vive e si muore nell’indifferenza. Apprendiamo che si può stare alle macchine tessili anche per diciannove ore al giorno; è vietato farsi male; è orribile, per le conseguenze che ne possono derivare, ammalarsi. Si partorisce in modo elementare, per non dire altro, e mai accade che lo straniero, l’estraneo, l’italiano insomma entri a far parte della più chiusa delle koinè in Europa. Quella di Prato è, infatti, la più impermeabile alle intrusioni. Dei 210 mila cinesi residenti in Italia i pratesi sono quasi irrilevabili eppure i più “produttivi”, assolutamente separati dagli altri connazionali dei quali non condividono le pur timide aperture: per loro lavorare è tutto ed una scodella di riso al giorno basta a soddisfare tutte le loro aspirazioni. Schiavi volontari di un sistema produttivo che in Italia conta quarantuno mila imprese registrate proprietà di cinesi: in dieci anni sono aumentate del 232%.

Tra sporcizia, topi, inedia, alienazione i pratesi cinesi vengono riconosciuti dal mondo esterno soltanto quando sono vittime inconsapevoli delle tragedie da loro stessi procurate. Allora le pagine dei giornali si riempiono di storie allucinanti, inverosimili, raccapriccianti come il rogo di domenica scorsa. Ma difficilmente chi entra in contatto con una realtà rimossa dai media e dalle autorità, va oltre l’umanissimo moto di pietà che dura lo spazio dei pochi minuti che i telegiornali dedicano all’accaduto.

Chi s’indigna? Chi si reca sul posto a guardare da vicino lo stupefacente gulag pratese della modernità? Chi si preoccupa di smantellare ciò che non sarebbe mai dovuto nascere? Chi indaga sui beneficiari dell’orrore, ovvero su coloro che pagano pochi euro l’immane lavoro di uomini, donne e spesso bambini per ingrassare aziende in “crisi” (non proprio cinesi) per la comunità e per l’erario, ma non certo per le banche dove depositano i loro squallidi profitti. Qualcuno, insomma, acquista ciò che viene prodotto a Prato e lo rivende nell’opulenta Europa trenta, quaranta, cinquanta volte più di quanto costano i manufatti. È il mercato, bellezza. O no?

Gli schiavi invisibili non parlano, non sanno, non chiedono. Forse pregano. E sognano di intraprendere la via del ritorno. E che ritornino non c’è dubbio, poco importa se da morti: non ci sono cinesi-schiavi sepolti in Italia. Una bizzarria? Forse. Ma non tanto, dopotutto, per chi il nostro Paese l’ha solo sfiorato e probabilmente non l’ha visto neppure in televisione, nonostante vi abbia abitato. Dopo diciannove ore alle macchine rimane talmente poco tempo per dormire, mangiare, accudire piccoli esseri che non c’è spazio per nient’altro altro. Neppure per un atto o per un gesto d’amore, clandestini anche questi quando capita, se capita.


CONDIVIDI SU:

Gallerie fotografiche correlate

×

Iscriviti alla newsletter