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Bernabè e Gamberale sbertucciano Telefonica su Telecom

“Azionisti di minoranza per una public company”. È il titolo, slogan programmatico, del convegno promosso ieri dall’ASATI, l’associazione dei risparmiatori medi e piccoli di Telecom Italia, nell’Auditorium Via Veneto di Roma, un tempo sede dell’IRI, galassia industriale di Stato che comprendeva l’ex monopolista delle telecomunicazioni. La nostalgia del simbolo delle partecipazioni pubbliche aleggia negli interventi di imprenditori, sindacati, ex manager di prestigio dell’azienda.  Creata nel 1998 su iniziativa di Franco Lombardi per aggregare i risparmiatori e i lavoratori detentori di piccole quote societarie all’indomani della privatizzazione della SIP ad opera di Olivetti, l’associazione raccoglie 4mila aderenti rappresentando un capitale azionario dello 0,5 per cento del totale e un punto di riferimento rilevante per i 600mila azionisti complessivi.

GLI OBIETTIVI DEI PICCOLI AZIONISTI DI TELECOM

Fautrice della trasformazione di TI in una public company, l’associazione vede nell’acquisizione della società da parte della spagnola Telefonica un ostacolo all’affermazione di una compagnia ad azionariato diffuso nel mercato priva di gruppi egemoni di controllo e una grava minaccia al valore strategico dell’ex gigante delle Tlc. E in vista in vista dell’assemblea ordinaria dei soci del 20 dicembre, sceglie di affrontare i temi caldi del destino della compagnia, del ruolo e gestione della rete fissa di accesso, del progetto di vendita di TIM Brasil da parte dei nuovi proprietari iberici artefici della vendita di Telecom Argentina e del problema cruciale della banda larga. Temi tanto più urgenti alla luce delle cifre che prospettano un panorama critico dell’azienda, 15 anni fa protagonista nello scenario mondiale con 120mila dipendenti, 30 partecipate estere, 10 miliardi di patrimonio e un rapporto debito-fatturato al di sotto del 20 per cento. Relazione schizzata nello stesso arco di tempo al 100 per cento mentre i posti di lavoro sono scesi di 70mila unità.

IL PIANO INDUSTRIALE DI TELECOM ITALIA 

Finalizzato a invertire la rotta è il piano industriale illustrato da Roberto Opilio, responsabile Technology di Telecom Italia: “Un programma di ampio respiro che prevede la stabilizzazione dei ricavi tramite la convergenza tra comunicazioni fisse e mobili e investimenti mirati per 9 miliardi entro il 2016. A partire dalle reti infrastrutturali”. La minore velocità e copertura di accesso della banda larga nel nostro paese è legata alla mancanza delle tv via cavo, che nelle realtà più avanzate hanno costituito il terreno propizio all’espansione della broadband. Entro il 2016 l’azienda vuole raggiungere con tale tecnologia l’80 per cento del territorio nazionale, mentre l’anno prossimo verrà servito il 98 per cento delle città con oltre 30mila abitanti.

Gli investimenti produttivi saranno in buona parte compensati da un risparmio di 8,5 miliardi: le risorse orientate al mercato e ad attrarre clienti saranno tagliate per 1,6 miliardi mentre verrano messe in vendita e affittate le torri di trasmissione in Italia e Brasile. Riguardo allo scorporo societario della rete fissa, il manager ritiene essenziale valorizzarla prima di pensare alla vendita. Confermando la smentita dell’amministratore delegato Marco Patuano sull’eventualità di cessione di TIM Brasil, punta su accordi con Fastweb e Vodafone, che prediligono un network autonomo “per ottimizzare le risorse e promuovere sinergie in un impianto comune in fibra ottica aperto a tutti gli operatori”.

LA CRITICA DEL SECONDO AZIONISTA

Fortemente critico nei confronti dei vertici e del management della società è Marco Fossati, che con Findim group detiene il 5 per cento di azioni Telecom. Anch’egli aspira a rendere la compagnia “una public company in cui il consiglio di amministrazione venga legittimato e limitato nei poteri dalla maggioranza degli azionisti”. Per farlo bisogna cambiare lo Statuto societario, operazione per ora remota. L’alternativa, spiega l’imprenditore, è puntare su investimenti in joint venture con soggetti rilevanti, tra cui Cassa depositi e prestiti che deve svolgere un ruolo sinergico nella gestione della rete di accesso.

LO SFOGO DI BERNABE’ E GAMBERALE

Ma le obiezioni più radicali alla strategia dei nuovi dirigenti viene da due figure che hanno esercitato un ruolo di spicco nella governance dell’ex gigante pubblico. Franco Bernabè, ex presidente di Telecom Italia, attribuisce alla “furia ideologica distruttrice e liquidatoria delle partecipazioni statali la responsabilità di risultati nefasti per le prospettive delle nuove generazioni”. Parlando per la prima volta da quando ha scelto di lasciare il vertice di Telecom, il manager torna sui motivi delle dimissioni: “Una volta accertato il rifiuto di CDP di intervenire nella gestione della rete, finanziare il rilancio degli investimenti di lungo termine come avvenuto per l’Alta velocità ferroviaria richiedeva un aumento di capitale ricorrendo all’ampia liquidità presente nei mercati. Oppure era necessario trovare un partner strategico che apportasse tali risorse. Mentre non è stata compiuta nessuna delle due scelte dai nuovi proprietari di Telefonica”. Al loro ingresso in TELCO l’ex numero uno di TI resta contrario, “perché allontana la prospettiva di public company e la fusione paritaria tra le due compagnie in vista di un polo europeo delle telecomunicazioni”.

Vito Gamberale, fondatore del fondo F2i attivo negli investimenti infrastrutturali che di Telecom è stato direttore generale dopo aver ricoperto la carica di amministratore delegato della SIP, rimpiange l’epoca della “grande Telecom”, aperta nel 1995 alla frontiera della telefonia mobile: “Fu l’unica vera public company prima che la privatizzazione compiuta in buona fede nel 1997 dal governo guidato da Romano Prodi la rendesse una personal company oggetto delle razzie dei predatori che si sono alternati alla sua guida”. Ricordando come le prospettive di sviluppo della banda larga in Italia siano rese possibili grazie alla rete costruita dall’ex colosso delle telecomunicazioni, l’ex numero uno di Autostrade spiega che “non si è mai visto un gruppo con un debito maggiore rilevare una società con un passivo minore”. Per questa ragione teme che “TI tornerà utile per risanare le casse di Telefonica. Perché non si tratta di una fusione paritaria per promuovere un equilibrato sviluppo dei servizi telefonici, bensì del predominio di un’azienda su un’altra”.

Lettura condivisa da Michele Azzola, leader dei lavoratori della comunicazione aderenti alla CGIL: “Visto che Telecom ha una valenza strategica, il governo non può rifiutarsi di intervenire negli affari privati di un’azienda”. Nel mirino del rappresentante sindacale rientra poi “un piano industriale che prevede il taglio di 1 miliardo nel rapporto con i clienti e l’assunzione generica di nuovi occupati quando 36mila lavoratori ricevono un contratto di solidarietà”.

LA RISPOSTA DELLA POLITICA

Favorevole a una proiezione internazionale di Telecom “affinché possa diventare protagonista di acquisizioni piuttosto che obiettivo passivo di conquiste” è il senatore di Forza Italia Maurizio Gasparri. L’ex ministro delle Comunicazioni esclude il ritorno all’intervento pubblico nel mercato ma esorta i soggetti coinvolti “a liberarsi dalla mitologia delle privatizzazioni e a costruire una grande società della rete partecipata da tutti gli operatori delle Tlc”.

Finalità verso cui muove l’iniziativa del senatore del Partito democratico Massimo Mucchetti, presidente della Commissione industria di Palazzo Madama e primo firmatario di una mozione appoggiata da tutti i gruppi parlamentari che mira a rafforzare i poteri di controllo della Consob per tutelare risparmiatori e azionisti di minoranza delle società quotate in Borsa e prevede oltre al 30 per cento già esistente una seconda soglia per far scattare l’offerta pubblica di acquisto nel caso di controllo di fatto: “Livello che può attestarsi anche al 15 per cento”. Mucchetti ha ricordato che la privatizzazione del 1997 fu realizzata dall’allora capo del Tesoro Carlo Azeglio Ciampi e dal suo direttore generale Mario Draghi con l’obiettivo di un “nocciolo duro” di tipo francese, preferito alla vendita aperta sul mercato con clausole che la proteggessero da scalate straniere, il parlamentare mette in guardia il governo dal “voltare le spalle nella partita Telecom-Telefonica rinunciando a intervenire sulle nuove regole per l’OPA”.


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