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Che cosa unisce Alemanno, Salvini, Grillo e Berlusconi

Rifiutano l’etichetta di “Europa-scettici”, “poiché Europa, Ue ed Eurozona non sono la stessa cosa. E perché vogliamo un’unione fondata sulla centralità dello Stato-nazione che nessun trattato comunitario né l’ottusa austerità finanziaria possono comprimere”. È il cuore del convegno “L’Euro contro l’Europa?”, promosso al Tempio di Adriano di Roma dalla Fondazione Nuova Italia di Gianni Alemanno e dall’associazione di ricerca e analisi “A/Simmetrie” creata dall’economista Alberto Bagnai. Un fil rouge comunitario e ostile al capitalismo liberista guidato dalle tecnocrazie permea gli interventi di personalità molto lontane per formazione e storia culturale e politica. Ma va ben oltre i confini dell’iniziativa scientifica e civile.

La radicale contestazione del  Trattato di Maastricht e del Fiscal Compact sta prendendo corpo nel mondo partitico. Già alla Convention di destra “Rifare l’Italia” l’ex primo cittadino della Capitale aveva gridato all’esecutivo che “se la grave crisi provocata dall’austerity non cambia rotta, rischiamo di vedere calare la Troika a stabilire le scelte strategiche per il futuro togliendoci ogni indipendenza. A quel punto dovremo rimettere in discussione la nostra presenza nella moneta unica”. Nel V-Day di Genova Beppe Grillo è ritornato all’assalto dell’Ue rilanciando il referendum sulla permanenza nell’euro e proponendo la ricetta di una valuta a due velocità per gli Stati del Nord e l’Europa mediterranea. La nuova Forza Italia di Silvio Berlusconi ha scelto un profilo fortemente ostile verso l’Ue a trazione germanica. Promettendo di volersi alleare con i partiti euroscettici capitanati da Marine Le Pen e Geert Wilders, il neo-eletto leader della Lega Nord Matteo Salvini pone al centro il “recupero della sovranità dal gulag imposto da Bruxelles, che deve smettere di dirci come dobbiamo vivere”.

Lungi dall’esaurirsi nella sterile polemica contro il popolo e il governo tedeschi, il tema ha una rilevanza enorme. Lo prova il confronto crescente nell’universo accademico, nel quale a fianco di Bagnai emergono le riflessioni Claudio Borghi, Antonio Rinaldi, Giuseppe Guarino, Paolo Savona. È in corso una “rivolta” tra gli economisti, che nei suoi risvolti civili prefigura i contorni di un “nuovo partito anti-euro”.

La lettura dell’economista

A illustrare la natura fallimentare del percorso di integrazione monetaria europea è Alberto Bagnai, professore di Politica economica nell’Università “Gabriele d’Annunzio” di Pescara e  autore del libro “Il tramonto dell’euro. Come e perché la fine della moneta unica salverebbe democrazia e benessere in Europa”: “Concepita per la prima volta nella storia su un cambio fisso intoccabile, troppo forte per alcuni paesi e troppo fragile per altri, l’euro condanna molte nazioni a politiche drastiche di austerità impedendo strategie monetarie, fiscali e industriali flessibili, adeguate alla ripresa produttiva”. L’euro, spiega l’economista, venne immaginato e imposto come un vincolo esterno che avrebbe risanato i nostri conti pubblici e moralizzato il ceto dirigente italiano: “Ma lungi dal conseguire tale finalità esso ha permesso al capitale finanziario di schiacciare lavoro, salari, fasce sociali più umili. Rendendo impensabile l’esistenza stessa di un partito di sinistra”.

La responsabilità risiede a suo giudizio nell’equazione “mistificante e pericolosa” tra Europa e moneta unica perpetrata dal centro-sinistra e dal centro-destra. Per “rompere una simile menzogna” Bagnai chiede al mondo politico, oltre i confini ideologici, di prendere in seria considerazione l’abbandono dell’euro. È consapevole che “non si tratta di una strada salvifica e che una rigorosa regolamentazione dei mercati di capitali e delle attività bancarie è più che mai necessaria”. Ma la ritiene un primo fondamentale passo per “costringere Berlino a orientare verso la domanda interna i propri consumi” e invertire così la rotta.

La riflessione del filosofo marxista

Fautore del superamento delle tradizionali divisioni politiche contro “l’estremismo neo-liberale camuffato da pluralismo partitico” è Diego Fusaro, filosofo marxista e ricercatore presso l’Università San Raffaele di Milano. Autore del libero “Minima mercatalia. Filosofia e capitalismo”, lo studioso vede nell’adozione della moneta unica il cuore della “tirannia del monoteismo del mercato che soffoca i popoli e le identità”. Vuole sollevare il velo sulla realtà che si cela sotto il nome “Europa”: “Un’organizzazione economico-sociale che mercifica tutto in nome della globalizzazione, persino nel percorso scolastico caratterizzato dai ‘debiti e dai crediti’ e nei rapporti affettivi”. Affermatosi per il filosofo grazie alla rivolta del Sessantotto e con il trionfo dell’economia sulla sovranità politica statuale nel 1989, “il neo-capitalismo è una forza totalizzante e pervasiva: Ponendo l’alternativa tra unione monetaria e l’abisso che deriverebbe dal suo abbandono, blocca sul nascere ogni possibilità di ripensarla e rovesciarla”. Ai suoi occhi, il governo della valuta unica “che è riuscito a spazzar via cento anni di Welfare europeo”, lo spread, l’austerity, il Fiscal Compact, riproducono in forme moderne e raffinate le tecniche di aggressione un tempo riservate alle armi.

La voce del sociologo 

Fondatore e presidente dell’Eurispes, Gianmaria Fara espone le tesi di un europeista tradito. “Per generazioni abbiamo visto nel processo di integrazione l’attuazione del Manifesto di Ventotene e degli Stati Uniti d’Europa. Ma all’indomani dell’adozione della moneta unica, ci accorgemmo che il cambio con la lira aveva provocato la perdita del potere d’acquisto, l’impennata dei prezzi delle merci a fronte di retribuzioni non allineate al nuovo costo della vita. Prendemmo atto dell’enorme cessione di sovranità economica in assenza di una Banca centrale garante dei debiti e prestatrice di ultima istanza al pari della Federal Reserve”. La spirale di recessione-austerità-pressione fiscale intollerabile, spiega il sociologo, ha privilegiato soltanto gli interessi della Germania. “Mentre l’Italia che annovera 18 milioni di persone in grave difficoltà, sta vedendo la progressiva scomparsa del ceto medio. Vera ossatura di ogni democrazia”.

Gli scenari dell’abbandono dell’euro

A illustrare costi e benefici di un possibile superamento della moneta unica è Jacques Sapir, economista dell’École des hautes études en sciences sociales di Parigi e autore del libro “Bisogna uscire dall’euro?”. Ricordando come gli effetti delle strategie di austerità finanziaria e riduzione dei salari presentino grandi affinità con quanto provocato dalle politiche del Cancelliere tedesco Heinrich Brüning nei primi anni Trenta, lo studioso parla di una “devastazione economica delle realtà europee mediterranee a partire dall’introduzione della moneta unica e a fronte del potere terrorizzante della Germania”. Per lui un “federalismo di bilancio in grado di mettere in comune il debito sovrano è impensabile, visto che comporterebbe il trasferimento del 6-7 per cento del PIL tedesco verso i paesi meridionali”.

L’unico scenario percorribile, osserva, è la dissoluzione dell’Eurozona: “Meglio se non coordinata. Perché farebbe impennare il marco al valore di 1,8 dollari, mentre Francia e Italia aumenterebbero i propri investimenti interni registrando una crescita netta del Prodotto interno a fronte di una svalutazione monetaria del 10 per cento per franco e lira”. E il rischio inflazione? “Non vi è dubbio che salirebbe, ma verrebbe contenuta nella misura del 6 per cento nei primi due anni, per poi ridimensionarsi”. È per questo che, conclude Sapir, la fuoriuscita dall’euro dovrebbe essere decisa dai governi di Roma e Parigi, “gli unici in grado di provocare un effetto domino e spingere Berlino a far crollare l’unione monetaria”.

Le ricette della politica

Unica riflessione controcorrente rispetto alle ragioni profonde della crisi europea e alle ricette per affrontarla viene dal vice-ministro per l’Economia Stefano Fassina. Il quale ritiene l’euro “vittima di una strategia che ha origini antiche”. Lo svuotamento delle “democrazie nazionali”, spiega il rappresentante del Partito democratico, parte con la liberalizzazione globale del movimento di capitali decisa all’inizio degli anni Ottanta, “radice dell’egemonia mondiale del capitalismo finanziario”. Una scelta che tuttavia “da molte generazioni di cinesi è stata vissuta come atto di emancipazione dalla povertà”. Ragion per cui, puntualizza l’esponente del governo, “è pura nostalgia tornare nei confini delle democrazie nazionali: Nella competizione odierna tra potenze economiche la frontiera deve essere una democrazia sovra-nazionale ed europea, per cui sarà determinante l’esito del voto per l’Assemblea di Strasburgo e il semestre di presidenza italiana dell’Ue”. È in questa prospettiva, spiega il politico progressista, che potrà essere ripensata l’architettura finanziaria comunitaria. Ma se tutto ciò non verrà realizzato, egli è pronto a esaminare con realismo lo scenario di “una dissoluzione coordinata e ponderata dell’euro: Che costituirebbe una sconfitta per tutti e rischia di trascinare con sé la stessa Unione Europea”.

Persuaso che la strada degli Stati Uniti d’Europa è impraticabile “alla luce del riequilibrio di bilancio a carico della Germania e dei paesi del Nord”, Gianni Alemanno propone al governo Letta una strategia precisa: “Anziché richiedere un allentamento del Fiscal Compact in cambio della promessa di intollerabili leggi di stabilità da 50 miliardi all’anno, l’Italia potrebbe prospettare l’ipotesi di un abbandono dell’euro per provocare un radicale mutamento delle politiche finanziarie in direzione espansiva”. Tale iniziativa, precisa l’ex sindaco di Roma, “non può trasformarsi nell’alibi per perpetuare gli sprechi nella spesa per beni e servizi equivalente a un quarto degli 800 miliardi di uscite pubbliche. Perché è doveroso proseguire nella riorganizzazione di poteri, enti locali, pubblica amministrazione. Così potremo creare un ‘tesoretto’ utile alla riduzione delle tasse su lavoro e imprese e sugli investimenti produttivi dello Stato, anziché alle casse di Bruxelles”.


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