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La politica impari da Papa Francesco

Nell’effervescenza pre natalizia, la politica è alla ricerca di una normalizzazione. Non è un fatto sorprendente, in un anno così difficile come quello che abbiamo vissuto. E’ conseguenza semmai di una positiva propensione dei rappresentanti delle istituzioni a far trovare sotto l’albero dei cittadini almeno un pizzico di serenità.
E’ in questo modo che va interpretato il giusto intervento del capo dello Stato alla cerimonia di auguri al corpo diplomatico: dare un po’ di tregua festiva a una vita ordinaria che sta diventando, per quasi tutti, un affanno cupo e carico di pessimismo. Giorgio Napolitano, che in queste cose è campione, ha osservato con ottimismo che vi è “la convinzione, in una parte sempre più larga dell’opinione pubblica, che tra i doveri delle istituzioni vi sia quello di garantire alla Nazione stabilità politica e governabilità”.

Si potrebbe aggiungere, con un tantino di malizia, che il problema italiano non è esclusivamente la “mancanza di convinzione”, ma la totale assenza di condizioni psicologiche in grado di rendere possibile la tanto auspicata fiducia nei governanti. Un esempio per tutti è certamente la presenza di leadership aggregative, come quelle diverse tra loro ma convergenti di Matteo Renzi, Silvio Berlusconi e Beppe Grillo, che in dotazioni non portano sicuramente la garanzia di “governabilità”, né reale né presunta.

Il compito difficile di Enrico Letta, in totale sintonia con il Quirinale, non può non trovare, ed è logico che sia così, nelle parole di Napolitano un puntello e una rassicurazione. L’esortazione del Colle invita il Paese a superare “la fragilità endemica dei Governi”, anche perché, oltretutto, a livello europeo, aumentano favori populisti e nazionalisti che si nutrono di un’adesione generalizzata contro qualsiasi gestione razionale della cosa pubblica.

Un monito, dunque, giusto, sebbene ovviamente non risolutivo di niente. Bisognerebbe pensare, infatti, che, non solo a livello italiano ma in tutto il mondo sviluppato, l’istituto democratico è moribondo e in fibrillazione, non riuscendo a conciliare le due istanze fondamentali che ne rendono possibile l’esercizio: l’ampio consenso della base e la capacità di governo del vertice.

Lo sganciamento politico, insomma, è molto più sistemico di quanto non si ritenga di solito. Oggi la sovranità di governo è determinata, con razionalità discutibile ma anche con sicura risolutezza, dall’Europa, vale a dire da contesti decisionali che oltrepassano la vita e le esigenze delle masse. E la forza democratica, presente al fondo delle vite comunitarie, subisce uno stato di abbandono, di problematicità economica, che impedisce l’automatico sintonizzarsi delle scelte prese dall’alto con gli oneri che il bene comune impone dal basso.

Si potrebbe riassumere questo stallo, costatando che da un lato le società vedono combinarsi e diffondersi a livello collettivo esigenze per definizione ingovernabili, perché provate dall’indigenza e dalla povertà, mentre, all’opposto, invece i Governi hanno l’esigenza di operare seguendo autorizzazioni e concessioni di legittimità che il contesto internazionale impone e diffonde sui mercati al di sopra i popoli. La potenza democratica crescente non si concilia con il rafforzamento opposto delle regole di governo, le quali per definizione non sono e non riescono a essere democratiche nel senso originario del termine, essendo sovranazionali e incontrollate.

Perciò, forse, parlare di populismo non è veramente corretto, perché quello che s’intende con tale fenomeno è circoscritto a democrazie in stato di salute, e non è pertanto aderente a una situazione di recrudescente malcontento massificato e di crisi strutturale del sistema rappresentativo.

Ovviamente, responsabilità vuole che si aiutino i governi a governare, e che non ci si lasci trascinare da una tendenza politica disfattista, separando definitivamente la sovranità dalle condizioni che rendono possibile l’ordine pubblico e il suo esercizio legale.

Ma non si può ritenere che chi è chiamato a governare sia indicato prima dal voto popolare e debba governare poi senza curarsi degli interessi del corpo elettorale. Questa è la radice dell’odierna crisi politica continentale, una decadenza che va di pari passo al declino dell’idea di Stato repubblicano come lo abbiamo concepito fin ora.

Probabilmente bisognerà pensare in futuro a un cambiamento di paradigma complessivo nella gestione del bene comune. In questo senso, quanto è avvenuto in questi mesi nella Chiesa Cattolica potrebbe offrire qualche suggerimento, perché in Vaticano non vi è stata soltanto una riforma della più importante istituzione religiosa del mondo, ma l’introduzione di un nuovo modo di concepire la governabilità, inserita nella gente e in grado, al contempo, di guidare il corpo politico rappresentato. Sarà necessario rendere possibile anche in politica il medesimo esercizio efficiente dell’autorità, non senza aver condiviso e partecipato a pieno la soggettività stessa dei governati, vale a dire le intenzioni, le esigenze e le finalità di coloro che materializzano il bene comune.

La legittimazione, in tal senso, non è unicamente avere voti a sufficienza o riscontri sensibili nei sondaggi. Questo è semmai l’assenso che un’iniziativa o una persona possiede. Il consenso è, viceversa, saper sentire, capire e impersonare direttamente la vita degli altri, annullando la distinzione tra vertice e base, senza perdere di vista però la necessità di trasformare in attività di Governo la potenza e l’energia popolare raccolta.

La speranza per l’Italia è che questo possa avvenire prima degli altri partner europei, anche se, per adesso, a parte la retorica non se ne vede la minima traccia.

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