Uomo solo al comando, Enrico Letta è anche l’uomo meno potente d’Italia, il più debole, oggi, se il potere altro non è che la capacità di influenzare le coscienze altrui, e di farsi seguire – Letta si lascia inseguire, invece, da torme di urlanti. Le braccia allargate, i palmi delle mani rivolti verso l’alto, ad avvertire l’acqua che cade, a preoccuparsi della sua caduta, e lo sguardo, attonito e sconvolto, impaurito, come se quegli occhi non si fossero accorti del resto, finora, del resto che è l’Italia, sconquassata dai botti della disperazione che è anche la sua, perché un Presidente del Consiglio può essere disperato, e può, però, testardamente, voler recuperare la volontà di manifestare una propria speranza, nonostante ciò, nonostante tutto: sentimento titanico che risponde, alimentato da chissà quali forze segrete, a quei richiami intermittenti e strazianti della ragione.
Epico teatro parlamentare che fa da contralto alle meschine rappresentazioni del conformismo estremizzante: di fronte all’infuriato che veniva trattenuto a stento, al deputato che aveva appena terminato di diffondere il verbo grillista, con la consueta e tetragona arroganza, Letta impallidiva, ma non arretrava. “Questa è l’Italia? Questo è l’abisso che ci afferra?”, avrà ripetuto a sé stesso, smarrito, incredulo, al centro di un’aula che è, a questo punto, periferia mal sopportata di un Paese incattivito.
Di ritorno dal Sudafrica, annunciando una determinazione ritrovata, promettendo di combattere come un leone, scandiva, ripetutamente, quell’aggettivo: “inaccettabile”, in riferimento alle tentazioni liberticide e forcaiole della scalmanata plebe parlamentare grillista. Con tono sommesso, prima, e con un crescendo ritmato, poi, fino alla voce alta, alla volta conclusiva, quando è emersa la voglia che alcuni di noi condividono, quella di sbottare, di fronte allo stupidario aggressivo al quale siamo costretti ad assistere, impotenti, da troppo tempo. Avrebbero voluto scendere dai banchi, quelli, afferrarlo, magari, dopo le intimidazioni verbali, i purissimi risentiti che tengono in scacco un’opinione pubblica immalinconita e complice.
Le parole: troppe, declamate come se fossero i rappresentanti di chissà quale Italia superiore e non compromessa, e che guarda dall’alto e giudica, imparzialmente. Mezzucci, per non doversi assumere la quota di responsabilità che ciascuno di noi, invece, dovrebbe sentirsi addosso. “Nessuno è innocente”: ci voleva Francesco De Gregori, artista della fantasia, ma anche del pensiero – senza pleonastiche specificazioni -, per confessare a tutti l’inammissibile: che l’esercizio abusato dell’attribuzione ad altri di tutti i guasti nazionali è immorale. “Non credevo di aver detto una cosa così popolare”: ma gli applausi del pubblico di Fabio Fazio, dopo qualche attimo di timidezza, venivano giù, e chissà se le sue parole verranno ricordate, per le volte future, quando ci si troverà ad ascoltare, di nuovo, i dispensatori dell’accusa facile.
Uno spettro si aggira per l’Italia, ed è uno spettro un po’ vigliacchetto: è l’ideologia nuova ed egemone del rifarsi una verginità attraverso l’insistente denuncia delle nefandezze altrui. Tutti senza peccato, tutti scagliamo la prima pietra, ma quelle pietre mancano il bersaglio, invertono la loro rotta, e ricadono su di noi, regolarmente. Chi trova il coraggio di annunciarla, l’italiana e cristiana verità dell’innocenza di nessuno, si prepari a ricevere, senza tremare, l’odio di mezz’Italia o più.