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Passa dagli smartphone il futuro dell’Africa?

Il 2013 è stato l’anno dei cellulari: secondo le ultime stime dell’Unione Internazionale delle Telecomunicazioni (ITU), negli ultimi 12 mesi il numero dei telefoni  mobili (6,8 miliardi) ha quasi raggiunto quello degli abitanti della Terra, 7,1 miliardi. E la percentuale di utenti con cellulare è alta sia nei Paesi ‘sviluppati’ (128%, insomma, in parecchi ne possiedono due) sia in quelli ‘in via di sviluppo’ (per usare la classica terminologia dei rapporti internazionali), dove arriva all’89%. In più, fa notare l’ITU, ormai 4 abitanti della Terra su 10 sono connessi ad Internet, e molte di queste connessioni avvengono proprio attraverso i telefonini.
L’Africa è un’eccezione solo parziale. Con il 63% per cento di abitanti che possiedono un cellulare – sempre secondo le stime 2013 dell’ITU – e il 16% di popolazione online è fanalino di coda tra i continenti, ma questi numeri hanno subìto una netta accelerazione negli ultimi anni. Basti pensare che nel 2005 la statistica sulla diffusione dei cellulari era del 12,5% e solo il 2,4% delle persone usava Internet. Tanto è bastato a compagnie come il gigante delle telecomunicazioni Ericsson a vedere nell’Africa un mercato dal grande potenziale per il settore ‘mobile’.
Il responsabile del marketing dell’azienda in Africa sub-sahariana, Shiletsi Makhofane, ha commentato l’ultimo rapporto in materia, diffuso da Ericsson a fine novembre, spiegando che “l’immissione sul mercato di smartphone a basso costo” (circa 50 dollari) “permetterà di raggiungere un livello di connettività mai visto prima”, con conseguenze positive dal punto di vista economico. Sembra di rivivere l’entusiasmo di Nicholas Negroponte, cofondatore del Media Lab del Massachusets Institute of Technology, quando nel 2005 lanciava il progetto ‘Un computer per ogni bambino’ (One laptop per child), che attraverso la produzione di un pc dal costo di meno di 100 dollari prometteva accesso all’istruzione per bambini di 42 Paesi. E proprio nel 2013 il presidente kenyano Uhuru Kenyatta si è ispirato all’idea, promettendo, in campagna elettorale, computer gratis per gli scolari del suo paese.
Sia il progetto di Negroponte che quello di Kenyatta hanno dovuto e dovranno fare i conti innanzitutto con difficoltà tecniche (è difficile immaginare l’utilità di un computer portatile in villaggi isolati e in cui la corrente elettrica – quando c’è – è garantita da vecchi gruppi elettrogeni), che qualcuno forse spera di aggirare attraverso i più pratici smartphone. Tra questi, probabilmente, c’è Mark Zuckerberg, creatore di Facebook, che negli scorsi mesi ha annunciato un piano per fornire un collegamento Internet ai 5 miliardi di persone che ancora non lo possiedono. Compresi dunque coloro che per avere accesso a una connessione dovrebbero pagare, ogni mese, circa il doppio del loro salario, come nota ancora l’ITU: e tra i 20 Paesi in cui Internet è meno ‘alla portata’ della gente comune, ben 14 sono africani.
Il digital divide (il ‘baratro’, anche di possibilità, che si spalanca tra chi ha accesso alla Rete e chi ne è sprovvisto), dunque, non sarà facile da colmare neanche per Zuckerberg e Co. (sulle cui intenzioni ‘commerciali’ si è inoltre interrogato il web); c’è però chi ha sostenuto che non sia nemmeno prioritario. In modo apparentemente sorprendente, si tratta di un altro gigante dell’informatica, Bill Gates: in una lunga intervista al Financial Times, a novembre, ha ribattuto al ‘collega’, citando come più importante, ad esempio, la lotta a malattie come la malaria (a cui lo stesso Gates si dedica attraverso la sua fondazione).
Di certo, stabilire la priorità del diritto alla salute su quello ad Internet è facile, ma anche far terminare qui la discussione sarebbe semplicistico: che dire, ad esempio, dell’importanza che l’istruzione ha nel migliorare la vita delle persone e dei popoli sotto molti punti di vista, compreso quello sanitario? Educare qualcuno, in effetti, significa anche renderlo più consapevole degli effetti che una determinata cura avrà su di lui o sui suoi cari. Senza contare che istruzione significa (anche) coscienza dei propri diritti: qualcosa che ha preceduto l’attivismo mediatico anche nelle celebrate ‘rivoluzioni arabe’ (la maggior parte delle quali, come è noto, sono state in realtà nord-africane).
Se dunque c’è un aspetto incontestabile in intuizioni come quelle di Negroponte è l’insistenza sull’aspetto educativo: resta però da capire se le nuove tecnologie siano sempre il mezzo più conveniente ed efficace per raggiungere lo scopo. Il dibattito è aperto, ma di sicuro, se il 2013 è stato l’anno dei telefonini, non resta che sperare che il 2014 sia quello dei libri. Anche non elettronici.

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