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Perché sulla riforma elettorale il Senato fa melina e attende il verdetto della Consulta

Rinvio. È la parola che meglio riflette lo stallo istituzionale e il clima nebuloso attorno alla riforma elettorale. La Consulta ha rinviato al 14 gennaio, prima data utile per la ripresa dei lavori nel 2014, la decisione sull’ammissibilità del ricorso per illegittimità costituzionale della legge Calderoli. E la Commissione Affari costituzionali del Senato ha rinviato a un giorno successivo alle primarie del Partito democratico il voto sui due ordini del giorno riguardanti le nuove regole di selezione dei parlamentari. Ma se la delicatezza del tema rendeva probabile uno slittamento della sentenza dei giudici costituzionali, la responsabilità della prima Commissione di Palazzo Madama appare arbitraria.

Gli ordini del giorno all’esame della prima Commissione del Senato

Nell’organismo della Camera alta era prevista ieri alle 20 una deliberazione sugli atti di indirizzo presentati dal Movimento Cinque Stelle e dal Carroccio, rimasti in piedi dopo la bocciatura del documento presentato da PD, Scelta civica, Sinistra e Libertà a favore del “doppio turno di lista o di coalizione”.

La mozione avanzata dal M5S prevede un meccanismo proporzionale “spagnolo” corretto con le “preferenze positive e negative” adottate in Svizzera: circoscrizioni provinciali, soglia di sbarramento implicita elevata, nessun recupero nazionale dei resti, facoltà di scegliere uno o più candidati in lista e di “bocciarne” altri sostituendoli con i rappresentanti di formazioni concorrenti.

L’ordine del giorno presentato dalla Lega Nord a prima firma Roberto Calderoli chiede il ripristino della legge Mattarella, in vigore tra il 1994 e il 2001, fondata sull’elezione del 75 per cento dei rappresentanti in distretti maggioritari di tipo britannico in cui vince il candidato che ottiene un voto in più, e su una quota proporzionale per scegliere un quarto dei deputati e senatori. Correggendola con l’utilizzo di una parte di quel 25 per cento di seggi per attribuire un premio di governabilità all’aggregazione o alleanza in grado di conquistare la maggioranza relativa dei collegi.

Un testo che ricalca la proposta più recente avanzata da Matteo Renzi, ancorché non tradotta in un progetto scritto. A tale formula si è detto favorevole Gianni Cuperlo, mentre Giuseppe Civati ha fatto del ritorno alla normativa precedente un punto cruciale della sua campagna. Il ripristino del Mattarellum è l’obiettivo di ben tre disegni di legge presentati dal Pd in Commissione Affari costituzionali del Senato. Fra cui spicca il testo a prima firma Anna Finocchiaro che aggiunge una clausola di riequilibrio di genere e l’abrogazione dello scorporo.

Le ragioni politiche del rinvio di Palazzo Madama

Nella sua configurazione istituzionale il Pd appariva orientato ad approvare l’atto di indirizzo presentato da Calderoli. E un eventuale voto avrebbe trovato sbocco positivo. Mentre la mozione “ispano-svizzera” del M5S si sarebbe fermata al di sotto della maggioranza, il testo pro-Mattarellum avrebbe raggiunto il quorum richiesto. Oltre ai rappresentanti del Nazareno e alle “camicie verdi”, si erano espressi a favore Scelta civica e SEL. Escludendo la presidente Finocchiaro, si sarebbero ottenuti 14 Sì su 27 membri.

Tuttavia ha prevalso l’opzione del rinvio. La motivazione trapelata dalle mura dell’organismo parlamentare è che sull’ordine del giorno Calderoli mancava il consenso di tutte le forze a sostegno del governo. Più chiaramente il Nuovo Centro-destra, confermando l’antica propensione del PDL per ritocchi minimi al Porcellum conservandone inalterato impianto e filosofia proporzionale utile a misurare la propria forza, era nettamente contrario al Mattarellum. Manifestazione di ostilità che gli esponenti del Nazareno hanno interpretato come una seria minaccia alla prosecuzione dell’esecutivo di “intese ristrette”. Rinunciando al voto in attesa che la nuova dirigenza del partito possa trovare un accordo, quanto mai remoto viste le rispettive posizioni di partenza, con la pattuglia guidata da Angelino Alfano. Una scelta in forte contraddizione con le parole pronunciate a fine ottobre da Renzi, che aveva fatto balenare l’ipotesi dell’approvazione di “una legge semplice, bipolare, chiara su chi vince”, anche senza l’adesione del PDL. 

Per ora il Pd ha preferito vincolare tempi e merito della riforma al destino del governo. Ricalcando, in forma meno plateale, il comportamento assunto con la liquidazione della mozione formulata da Roberto Giachetti per il ripristino della legge preesistente. Ma sulla decisione del gruppo dirigente e dei parlamentari democratici aleggia un altro interrogativo. Perché il panorama interno al Pd è variegato e ricco di contraddizioni. Non è un segreto che una vasta area trasversale, di cui si è fatto portavoce Dario Franceschini, osteggi la reintroduzione del Mattarellum e più in generale l’adozione del maggioritario di collegio, “poiché non garantirebbe la governabilità in un assetto partito-elettorale tripolare”. Argomentazione in cui si sono inserite le opinioni favorevoli al proporzionale di tipo tedesco, a cui si è sempre richiamata l’area legata a Massimo D’Alema e la componente cattolico-popolare affezionata ai governi post-elettorali di grande coalizione.

Un gioco di rimessa con il governo?

Fermamente intenzionate a evitare un voto aperto e lacerante sul ritorno al Mattarellum, PD, Nuovo Centro-destra e Forza Italia potrebbero aver concepito un sottile gioco di sponda con il governo. Nella riunione dell’Ufficio di presidenza della Commissione Affari costituzionali del 26 novembre, Gaetano Quagliariello ha preannunciato che nell’eventualità di una prosecuzione dello stallo parlamentare il governo è pronto a presentare un disegno di legge di riforma elettorale. Progetto che sarà orientato a ricercare il più ampio consenso tra le forze che appoggiano l’esecutivo, compreso il Nuovo Centro-destra ostile al Mattarellum.

Che gli esponenti dell’esecutivo restino contrari al ripristino della normativa del 1993 e all’adozione di meccanismi coerentemente uninominali maggioritari, lo rivela una significativa intervista rilasciata a luglio dal responsabile per le Riforme istituzionali. E soprattutto il “piano di emergenza” messo a punto in assoluta segretezza dal governo con il beneplacito del Capo dello Stato. Progetto che tenta di “bonificare” la legge Calderoli dai punti a rischio incostituzionalità, prevedendo una soglia minima di consensi per accedere al premio di maggioranza, fissando una clausola di sbarramento uniforme al 5-6 per cento, riducendo l’ampiezza delle circoscrizioni, e stabilendo un bonus di governabilità nazionale a Palazzo Madama.

Ritocchi mirati. Ben diversi dall’archiviazione delle regole in vigore per cui Giachetti sta lottando da quasi 60 giorni con uno sciopero della fame invocando il trasferimento del dossier dal Senato alla Camera. Il rifiuto di votare sugli ordini del giorno e l’interminabile serie di rinvii da parte della prima Commissione di Palazzo Madama rendono realistico lo scenario del Maialinum, la revisione minima del Porcellum respinta da Renzi. Che sia proprio questo l’obiettivo a cui lavorano tutti i suoi avversari, compresi i tanti nuovi supporter saliti da poche settimane sul carro del vincitore?


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