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Vi spiego perché la vittoria di Renzi non è un ritorno della Dc

Dopo il trionfo di Matteo Renzi alle primarie è assai utile affinare l’analisi su quel che è avvenuto nel Pd. Per esempio a me non convince affatto chi etichetta il fenomeno del renzismo come “ritorno della Dc” con l’argomento non solo dell’affermarsi di un puledrino della cordata giovanile scudocrociata degli inizi anni Novanta ma anche con la più articolata valutazione sul ritorno di un modello catch-all party, partito prenditutto impegnato a tenere insieme ogni segmento della società al di là delle contraddizioni che un tempo si sarebbero dette “di classe”.

Il dibattito sul partito cattolico nel ’47 vide contrapporsi i due vicesegretari di Stato vaticani (Papa Pacelli si considerava lui stesso il vero “segretario” e aveva solo vice) Domenico Tardini (che voleva un partito cattolico moderato e uno progressista) e Giovanbattista Montini che voleva un partito unico per reggere la sfida con quel genio di Palmiro Togliatti. Nel 1992 con la fine dell’Unione sovietica e dunque del movimento comunista internazionale le ragioni di Montini evaporarono e si ripropose naturalmente la posizione tardiniana, poi sostanzialmente assunta da Camillo Ruini. Quanto al partito “catch-all” non mancano nel mondo movimenti di sinistra con queste caratteristiche che comunque non raffigurano precisamente l’essenza della Dc d’antan: non tanto una classica organizzazione pigliatutto quanto in una prima fase forza sostenuta “direttamente” dalla Chiesa, poi centro dotato in modo quasi confederato di rapporti collaterali (Coldiretti, Confcommercio, Confartigianato, Cisl, in qualche fase una parte essenziale della Confindustria) direttamente rappresentati nei gruppi parlamentari e infine con Amintore Fanfani un semi partito-Stato.

Il movimentismo renziano non ha niente a che vedere né con un rapporto diretto con la Chiesa né con il collateralismo (che semmai vezzeggiando questo o quel corporativismo pare proporsi in certe aree alfaniane) né col partito-Stato (semmai è l’asse Letta-Napolitano che cerca di sfruttare una qualche residua centralità politica nell’economia per compensare la carenza di basi sociali del governino).

In realtà bisogna prendere atto come nell’azione del sindaco di Firenze si affermino tendenze generali ben presenti nella sinistra internazionale piuttosto che il riprodursi di un partito come la Dc dalle radici ormai recise. Un’ispirazione religiosa, per esempio, si è manifestata in diversi partiti socialisti europei: John Smith, il maestro di Tony Blair, che chiude con i segretari radical-operaisti laburisti degli anni Ottanta, aveva innanzi tutto – come avviene talvolta agli scozzesi – una forte motivazione spirituale. Così lo stesso Gerhard Schroeder quando guidò la Spd. Per non parlare di un altro decisivo leader della sinistra globale Luiz Inácio da Silva Lula, allevato dal sindacalismo cislino.

Per capire quel che sta succedendo (e non riguarda solo Renzi perché da Genova a Roma, da Milano a Palermo l’affermarsi di una forte motivazione religiosa-spiritutale nella sinistra è tendenza omogenea) si deve riflettere sulla crisi delle culture laiciste egemoni nella sinistra italiana sin dalla seconda metà dell’Ottocento. Prima il mancato sostegno di Filippo Turati a Giovanni Giolitti, poi la morte di Bruno Buozzi nel 1944, infine Bettino Craxi che non coglie “l’attimo” alla fine degli anni Ottanta e poi viene massacrato dalla magistratura combattente, hanno dissolto il pur fondamentale filone riformista nazionale. L’unica cultura politica di sinistra restata in piedi quella ex comunista non è stata capace di compiere quello che hanno fatto i ben più mediocri e ben più colpevoli “fratellini” dell’est diventati integralmente socialdemocratici, “riconoscitori” dell’avversario e ricostruttori di Stati veramente liberaldemocratci in grado di affermare sovranità sia popolari sia nazionali. Su questo terreno hanno invece fallito gli ex Pci, non solo i mediocri (tipo Walter Veltroni) ma anche i cavalli di razza come Massimo D’Alema e Giorgio Napolitano. Un mix di hybris arrogante e opportunismo vanitoso, di superbia intellettuale e pavidità infastidita li ha condotti al fallimento.

La sinistra che è rimasta (con un cuore essenzialmente “urbano” ed esaminando questo tema si spiega l’altra metà di Renzi) ha finito per utilizzare quel che rimaneva di un certo lapirismo-dossettismo e di un americanismo filtrato dalla spiritualità cattolica che non solo hanno dato molto all’Italia (per esempio la sua grande industria di Stato) ma articolandosi in certe tendenze gianseniste trovano qualche sintonia con quel moralismo affaristico-azionistico di Carlo De BenedettiEugenio Scalfari ed Ezio Mauro oggi centrale negli orientamenti dell’opinione pubblica di sinistra.

Al filone religiosamente ispirato come l’unico rimasto vitale nella sinistra, si lega poi la tendenza a dare una nuova centralità alle città che non solo ha ispirato un ottimo saggio “The triumph of the city” di Edward Glaeser (studioso di tendenza snob-liberistica all’Alesina) ma anche un brutto libro di un intellettuale democratico Benjamin Barber dal titolo pienamente rivelatore del Zeitgeist “If mayors ruled the world”, con l’idea raccontata enfaticamente su come le città confederate possano superare le nazioni e gli imperi. Tantissima paccottiglia liberal, ma un’idea forte: la città come luogo della modernità può dettare l’agenda politica. Di fatto questa impostazione è alla base del blocco sociale di Barack Obama, non per nulla spesso definito “sindaco d’America”: l’idea è che non serva più far prevalere tendenze unificanti ma basti accompagnare i patchwork etnici e sociali che si definiscono autonomamente (in parte questo schemino viene avventurosamente ripetuto anche su scala globale). Un’impostazione molto da scuola politica delle “strade” di Chicago, a mio avviso largamente deleteria, e che ha sostituito l’approccio centrato sull’alleanza tra capitale e lavoro alla base del riformismo anni Novanta con Bill Clinton, Blair, Schroeder (i primi due troppo succubi della finanza globalizzata: l’unico aspetto su cui in parte li segue Renzi).

Come si comprende non è che Renzi mi rassicuri troppo. Questa sua idea di sostituire a una visione nazionale una “cittadina” (in parte seguita anche da fallimentari leader socialisti come José Luis Rodríguez Zapatero e François Hollande, che però come una De Girolamo qualsiasi ha anche un saldo penchant contadino) questa vocazione gozzaniana piena di piccole cose di cattivo gusto (con tutte le evidenti omissioni sui temi che contano e le annesse contraddizioni) spaventa abbastanza: anche se qualsiasi rottura dei mortiferi equilibri oligarchici oggi prevalenti è comunque un passo in avanti.

Però al di là dei miei mal di pancia, quel su cui riflettere bene è che siamo di fronte a una solida tendenza di tipo nuovo, e non alla risciacquatura di un passato che non può tornare.

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