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Berlusconi e l’essenza del centrodestra

Qualche giorno fa, com’è noto, è ricorso il ventesimo anniversario della “scesa in campo” in politica, come allora egli stesso la definì, di Silvio Berlusconi. Il famoso discorso sul “nuovo miracolo italiano” del 16 gennaio 1994 appartiene pienamente agli atti che documentano la storia della politica italiana, al pari della difesa contro i giudici di Milano di Bettino Craxi del ’93 o del discorso sulle ragioni dell’incontro con i comunisti di Aldo Moro del ’78.

Il tono, però, e la carica di significato fa somigliare quell’apparizione televisiva a qualcosa di più intenso e sistematico, simile al discorso di Stradella di Agostino Depretis del 1882 o al nuovo indirizzo della politica liberale di Giovanni Giolitti del 1901. In tutti quei casi era, infatti, una filosofia fondamentale che voleva essere trasferita ai cittadini. E in tutti con una partecipazione forte, epocale, quasi mitologica.

Certo, per capire la rilevanza della figura di Berlusconi non ci si può fermare alle parole e alle apparenze. Anzi, gli slogan hanno avuto in lui la funzione specifica di essere volano per fissare, come un’icona, il senso di una prospettiva, l’immagine di una realtà, continuamente richiamata dai comportamenti, e perentoriamente confermata dal consenso.

Al di là, però, delle tante cose che si potrebbero dire sul personaggio, ampiamente osservate in questi giorni e dibattute in questi anni, è utile soffermarsi un momento sul lascito vero che il Cav. ha offerto alla politica italiana, in modo da cercare così di comprendere meglio cosa ne sarà della sua eredità.

La prima constatazione riguarda la collocazione politica di Berlusconi. Il suo progetto, infatti, dal principio ha avuto una posizione precisa nell’area del centrodestra. Oggi può apparire logico, ma allora, nel ’94, venivamo da cinquant’anni in cui il voto moderato era assorbito in larga parte dalla Democrazia Cristiana, un partito che ne sviluppava poi, in modo diverso, secondo i casi, ma di solito in concorrenza e non in contrapposizione alla sinistra, la sua forza.

Berlusconi, invece, si presentava nello scenario come espressione diretta dell’intraprendenza individuale del capitalismo sotterraneo, senza mediatori, introducendosi cioè come un corpo estraneo agli schemi ideologici novecenteschi. D’altronde, il suo programma, ambizioso fin da subito, non era totalmente liberale, o comunque non nel senso avuto con Malagodi e Altissimo. Tanto meno vi era in Forza Italia un’adesione ideologica al neo fascismo. Al massimo una cattolicità generale, in doppio petto, e una sintonia con i riferimenti valoriali del Cristianesimo.

In realtà, come accade in politica nei grandi momenti, il successo di Berlusconi non è legato agli schemi ma al modo in cui egli ha saputo far emergere l’identità profonda, invisibile, latente e reale del conservatorismo italiano, impossessandosene e incarnandola. Saper evocare il fondamento, l’essenza, la matrice genetica, che sottostà ai gesti come una visione del mondo comune, è il mantra della potenza politica riformatrice e la chiave di volta del mantenimento del consenso.

Per comprendere questo discorso, si deve fare un passo indietro. Tutta la storia politica italiana è stata dominata, dopo la fine della Guerra mondiale, da una sorta di sospensione democratica. La nazione era stata, infatti, fascista nel profondo. Non a caso, Benito Mussolini aveva definito, in una famosa voce dell’Enciclopedia Italiana, la sua dittatura una democrazia autoritaria, sorretta cioè da una mentalità molto, molto italiana. L’uscita dalla tragedia della Guerra e il consolidamento della Repubblica poneva la necessità, negli anni quaranta, di creare una Costituzione che fosse democratica in un altro senso. Una democrazia non legata alla realtà del popolo, ma alla legittimità del sistema dei partiti e della loro comune ascendenza antifascista, nonché sulla forza dell’apparato statale.

Il consenso del centrodestra era ripartito così tra un liberalismo di élite, un neofascismo nostalgico, e a tratti eversivo, e una maggioranza silenziosa che votava DC, affidando alle correnti conservatrici della grande Balena Bianca la mediazione con le forze eterogenee della sinistra.

La parola d’ordine era difendere la democrazia dal socialcomunismo, sospendendone tuttavia e mediandone la richiesta, neutralizzando i rischi della democrazia autentica.

Ecco, viceversa, che davanti al fuoco progressista di Mani Pulite, Berlusconi ha improvvisamente fatto riemergere l’essenza popolare sospesa del centrodestra, facendo finalmente pesare direttamente l’autentica base valoriale e sentimentale della nazione.

Se si guarda la sua complessiva parabola politica, si vede con facilità che il suo riferimento centrale è ad una coordinata estranea alla dimensione costituzionale della Repubblica ma agganciata alla forza vitale della democrazia.

La genialità istintiva di Berlusconi, analogamente a Ronald Reagan o a Charles De Gaulle, è di sentire visceralmente il battito del cuore della gente e di saper trasferire in modo dinamico i sentimenti originari degli italiani in perenne evoluzione ad un livello di potere politico e di resistenza alla gestione legalmente autorizzata delle regole repubblicane.

Altrimenti perché il suo consenso non è mai venuto meno in questi anni?

In tal senso, il conflitto con la magistratura è perfettamente consequenziale al peso politico che Forza Italia, prima e dopo, e il PDL, nel frattempo, hanno avuto. D’altronde, riconoscere in Berlusconi l’essenza del centrodestra italiano non vuol dire, sia chiaro, parteggiare per lui o contro di lui, ma comprendere che l’interruzione di quel canale di identificazione con il popolo genera necessariamente il declino elettorale della sua area politica o l’affermazione dell’antipolitica come reazione pessimista. Mentre il mantenimento del contatto con la vita l’ha reso forte anche nelle debolezze, sia personali e sia culturali.

Il momento attuale, pertanto, non è la fine del berlusconismo ma semmai il suo inizio. Matteo Renzi ha capito, infatti, che il centrosinistra, da par suo, non può continuare nella retorica del moralismo, deve superare lo schema del dopoguerra, abbandonare la linea del partito delle istituzioni, per calarsi nell’anima progressista propria della sua area politica. Per farlo, ossia per essere legittimato a applicare questo nuovo approccio con gli elettori, deve riconoscere la legittimità opposta e contraria di Forza Italia. Altrimenti, è perduto.

Berlusconi, per suo conto, sa che nessuno della nuova generazione è in grado di trasformare il suo elettorato in consenso partecipativo. Per questo motivo, attende. Paradossalmente l’eredità può essere mantenuta, ma non può essere gestita in modo classico, per così dire governativo. Il ritratto uscito sul Sunday Times del suo volto invecchiato genera più consenso di tante idee e capacità possibili nell’area conservatrice. Il motivo è che tutti invecchiamo, e la componente emotiva del declino è avvertita con malinconia e partecipazione da tutti, al contrario del desiderio di potere che tutti disdegniamo in noi stessi prima ancora che negli altri.

Portare il potere dentro la natura della gente, in definitiva, è e rimane l’essenza del centrodestra italiano. E riuscire a conservarne la vitalità è possibile, in modo simile o diverso, solo non trasferendo il potere fuori o sopra questo impulso originario che Berlusconi ha saputo rivelare agli italiani, e che anima tutta la destra europea. In definitiva, solo in questo modo esistenziale di stare dentro la vita normale dei cittadini, la difesa della persona, della famiglia e della sacralità del nascere e del morire acquisisce un rilievo politico fondamentale come identità permanente del centrodestra.

 

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