Un corporale income tax che è oggi al 21% e destinata a scendere ulteriormente al 20% nel 2015; nessuna forma di tassazione locale sui profitti delle imprese per attrarre investimenti dall’estero e favorire la “delocalizzazione” delle multinazionali attraverso una più bassa pressione fiscale. Ecco come il sistema fiscale inglese ha “conquistato” la nuova scelta logistica di Fiat Chrysler Automobiles, mentre il fisco italiano perde incassi sicuri.
RIMPIANTO
Il Fisco italiano certamente non incasserà la corporate income tax (Ires e Irap) connessa alla ex Holding Fiat Spa, l’employment tax e dividend tax, così come ricorda Marco Bellinazzo sul Sole 24 Ore di oggi, mentre potrà continuare a disporre della corporate income tax riguardo alle società operative che resteranno nella Penisola.
NUOVA SEDE
Ma cosa cambia in concreto con la nuova residenza fiscale di Fca? In prima battuta il Regno Unito sarà la piazza dove verranno stabilmente assunte le decisioni più significative. Ma, almeno nel primo e iniziale periodo, Fca manterrà alcune funzioni in Italia che, da un punto di vista fiscale, osserva Bellinazzo, “daranno luogo ad una stabile organizzazione, la quale sarà soggetta a tassazione ordinaria – come qualsiasi società italiana – sulla quota parte di redditi attribuibili alle attività sul territorio nazionale”.
MANCATI INCASSI
Il fisco italiano perderà le ritenute sui redditi distribuiti agli investitori non italiani, oltre alle imposte sui futuri apprezzamenti degli assets (anche partecipazioni) non riferibili fiscalmente all’Italia esso. Infine anche tutte le imposte, finanche sui consumi, che risultano associate alle persone che potrebbero essere trasferite o direttamente assunte nella nuova sede inglese.
SGRAVI SU SGRAVI
Per cui, al netto dei dettagli contenuti nella nota ufficiale del Gruppo, saremmo in presenza di una “fusione transfrontaliera” che porterebbe anche ad altri vantaggi sotto forma di sgravi. Il paper inglese citato dal Sole 24 Ore, “A guide to uk taxation. An internationally competitive tax offer”, rileva che chi investe nel Regno Unito gode di un’imposizione sui redditi societari più leggera, oltre a esenzioni su dividendi e capital gain generose, convenzioni internazionali più favorevoli soprattutto con la sponda atlantica del globo. E ancora, le “ritenute sui dividendi verso gli investitori più convenienti di quelle italiane (ad esempio 20% per le persone fisiche non residenti, salvo convenzioni) o americane (30%, nello stesso caso, salvo convenzioni), un regime di favore per la ricerca (patent box), la possibilità di limitare la tassazione dell’Italia e degli Usa ai soli redditi prodotti sul territorio nazionale e, infine, ulteriori benefici su compensi ed incentivi ai manager”.
OCCASIONE PERSA?
In molti iniziano a ragionare sul fatto che, quindi, per il fisco italiano potrebbe essere questa una ghiotta occasione persa dal punto di vista degli introiti fiscali. Intanto però potrà continuare a tassare i profitti degli investimenti che il gruppo deciderà di mantenere in Italia, scrive il quotidiano di Confindustria oggi. Il riferimento in particolare è alle società operative sul territorio controllate ad oggi da Fiat Spa e le imposte collegabili alle persone fisiche.