Che Italia si presenta all’Expo 2015 di Milano? La diatriba scoppiata sugli Ogm è davvero rivelatrice. Da una parte c’è Oscar Farinetti, nemico giurato degli organismi geneticamente modificati, dall’altro Umberto Veronesi che ne sostiene l’utilità. Il grande venditore vorrebbe metterli al bando, così l’Esposizione si trasforma in una fiera del chilometro zero, dell’economia lenta, del localismo. Il grande oncologo sostiene le ragioni della ricerca, della tecnologia, della scienza. Ci sono interessi in conflitto, sia chiaro, tutti legittimi. E weltanschauung contrapposte, entrambe rispettabili. Ma soprattutto è in ballo il futuro del Paese. L’Italia del dopoguerra, quella della Fiat e dell’Iri, è finita negli anni ‘90, sotto le ceneri della Prima repubblica. L’Italia covata nel frattempo, quella dei distretti e delle partite Iva, ha dato il massimo, ma la crisi del 2008 l’ha rimessa in discussione. Oggi arranca, boccheggia e rischia di annegare nelle onde lunghe del mercato mondiale. Dalle sue propaggini emerge da un lato l’universo slow, dall’altro il modello delle nicchie d’eccellenza, che difende il mestiere, la qualità, il territorio, ma vuole misurarsi con i livelli più alti della produzione, del consumo, dell’innovazione. Entrambi evocano la green economy, il matrimonio felice tra innovazione industriale e ambiente. Il punto di riferimento è il modello nordico, soprattutto scandinavo. Quello mitico, però, non quello vero. All’ingresso di Hammersby Sjöstad, che a Stoccolma viene considerato il quartiere più verde al mondo, si staglia la ciminiera di un impianto che trasforma i rifiuti in energia. Ne esce un fumo sottile, ma i tecnici giurano che è innocuo. Gli svedesi si fidano. Gli italiani non lo farebbero mai, non vogliono vivere sotto un inceneritore, non sono mica così naif! Come con il nucleare. Nel 1980 gli svedesi votarono no al referendum. Ma ancor oggi gran parte dell’elettricità viene prodotta con energia atomica. Gli italiani hanno detto no nel 1987 e un anno dopo tutte le centrali erano chiuse. Furbi, no? Gli svedesi cambiano, accettando pragmaticamente i costi e i benefici e vanno ben più lontani degli italiani i quali vorrebbero solo benefici senza costi. Gli svedesi apprezzano i risultati (sempre provvisori e discutibili) degli esperimenti, gli italiani ne mettono sempre in discussione i presupposti, magari ammantando il loro nichilismo di motivazioni etiche. Il ponte sullo Stretto? Un favore alla mafia. L’alta velocità? Un imbroglio dei poteri forti. E via così, purché nulla si faccia, niente turbi il piccolo mondo antico. Nella minuscola Atene della Maremma, già protagonista della battaglia no nuke (Montalto di Castro è poco lontano), marchesi intellettuali, principi gauchiste, filosofi, politici e scrittori, tutti membri robusti seppur critici della classe domi-nante, hanno assegnato il premio Capalbio a Serge Latouche l’ex maoista inventore della decrescita felice. Lui ringrazia così: “All’Italia serve la bancarotta”. I nuovi italiani potrebbero fare a meno di fabbriche venefiche, automobili mortifere, treni proiettile, aerei seminatori di lutto, ciminiere cancerogene, molecole mutanti. Una società salutista, vegetariana, anzi vegana, una generazione lenta. È “una rivoluzione fatta con mitezza, intima prima che corale, un uscire dal mondo delle merci poco alla volta” ha scritto su il Manifesto Franco Arminio, vate della paesologia, “una serena obiezione alla modernità incivile”. Perché “il capitalismo è morto, ma i capitalisti sono vivi e vegeti… Non siamo in condizione di cambiare il mondo, ma possiamo praticare nuove forme di comunità provvisorie”. Rivoluzione? Piuttosto l’elegia di un passato bucolico, quanto immaginario. Il bando agli Ogm nasce da qui. E diventa lo specchio di un Paese lacerato da conflitti irrimediabili, chiuso nel campicello all’ombra del campanile, vecchio, appagato sotto la patina dell’eterna insoddisfazione, che non ha più voglia di rischiare, ha orrore del cambiamento al quale è costretto dall’esterno quando arriva sull’orlo del precipizio, vive di rendita perché aborre il profitto. Un’Italia che si trasforma in un’immensa isola pedonale dove passeggiano gli stranieri per i quali gli italiani possono fare le guide turistiche, o i camerieri. “Nutrire il pianeta” – lo slogan di Expo 2015 – significa cambiarlo. Alle immense trasfor¬mazioni degli ultimi decenni, hanno contribuito molteplici fattori: a) la tecnologia, a cominciare dall’ingegneria genetica che ha consentito la rivoluzione verde in Asia, in America Latina, in parte dell’Africa; b) la finanza, perché un immenso flusso di capitali s’è spostato dai Paesi ricchi a quelli in via di sviluppo; c) l’imprenditoria, perché ci sono voluti e ci vogliono ancora imprenditori capitalisti, grandi e piccoli, per trasformare lande desolate in terre fertili, agricoltori, ma anche industriali che alimentano con la loro domanda la nuova offerta (un esempio viene dal caffè e da come ha cambiato i territori aridi del Brasile); d) innovazioni organizzative su scala globale (i colossi delle commodities) e su scala locale: perché la trasformazione dell’economia del villaggio in seguito a mi-crointerventi è una politica perseguita dalla Banca mondiale in Africa e in Asia, soprattutto. Insomma, tutta una gamma ampia e sempre mutevole di strumenti che fanno la politica dello sviluppo. Se tutto questo entra nei padiglioni, in quel “giardino botanico globale” come lo ha chiamato Stefano Boeri che ha concepito la struttura, l’Expo sarà un appuntamento importante, anche sul piano culturale. Ma forse è uno sforzo eccessivo per un’Italia che rimpiange sempre il proprio passato perché rifiuta di avere un futuro.
Expo 2015, fiera del localismo alimentare?
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