Skip to main content

Fiat-Chrysler, ecco cosa insegna l’accordo a Landini e Camusso

Una lezione per il sindacato italiano. Ecco cosa insegna l’accordo tra Fiat e Chrysler alle parti sociali di casa nostra secondo Roberto Di Maulo, segretario del Fismic, 20mila iscritti quasi tutti in Fiat, già mediatore nella sfida tra Marchionne e Italia quattro anni fa.

Di Maulo, definito anni fa da Nunzia Penelope sul Foglio il Bob King italiano, in una conversazione con Formiche.net traccia il perimetro dell’accordo raggiunto con Chrysler, mettendo l’accento sulle differenze nei sindacati italiani.

Perché l’accordo tra Fiat e Chrysler è una lezione anche per il sindacato italiano?
Semplicemente perché la struttura contrattuale che si è sviluppata negli anni in Usa ha pensato, più che al salario uguale per tutti o a premiare i terzi livelli con aumenti sempre rimangiati dall’inflazione prima e dalla tassazione troppo alta dopo, a creare un sistema di welfare per i lavoratori sprovvisti di un sistema di protezione che lì non c’è. Considerando che anche noi in Italia ormai siamo giunti per colpa dell’indifferenza gestionale a un livello insostenibile, urge un cambio di passo contro quell’approccio ideologico che non serve a nessuno.

Il fatto che il fondo Veba amministrasse più del 40% della Chrysler che significa?
Che in Italia la partecipazione nell’azionariato per colpa della Cgil non è stata possibile. E’ invece praticata nelle economie industrialmente forti come Germania e Stati Uniti. Si garantiscono inoltre maggiormente i lavoratori, rispetto ad un eventuale colpo di testa del management. Quella percentuale per Veba significa nei fatti essere il sindacato di controllo. Senza dubbio le esperienze inglesi e sassoni sono migliori di quelle italiane.

Qual è il maggior freno nelle parti sociali di casa nostra?
Il sindacato italiano è fallimentare: non ha costruito nulla e non è stato in grado di proteggere la previdenza pubblica, né la sanità pubblica. Così il sistema si è degenerato e i lavoratori non hanno avuto in cambio un adeguato sistema di protezione, tantomeno uno di partecipazione alla vita delle imprese.

Il bene dell’azienda è anche il bene dei lavoratori Fiat, quindi?
É il terzo insegnamento dell’accordo. La differenza tra il sindacato Usa e la Fiom sta proprio in questo: lì ci sono management, sindacato e lavoratori che remano tutti nella stessa direzione. Così la Chrysler è riuscita in quattro anni ad uscire da uno stato patologicamente ultrafallimentare, arrivando ad un livello di eccellenza che l’ha portata a raggiungere il top nel mercato americano. Un passaggio su cui Fiom e Cgil dovrebbero riflettere.

Sergio Marchionne oltreoceano ha a che fare con il presidente Obama, qui invece con Landini, ha osservato oggi Vittorio Feltri sul Giornale: è un’altra chiave di lettura per capire cosa c’è oltre l’accordo?
Non dimentichiamo che abbiamo rischiato a lungo che Fiat abbandonasse l’Italia a causa di comportamenti ostativi. Per averne un’idea è sufficiente leggere la nota diffusa ieri da Susanna Camusso. Mi chiedo: è un Paese normale il nostro? Se così fosse, dopo quella nota dovrebbe essere privata della possibilità di esercitare pubblici uffici. Non ha alcun senso prendere certe posizioni quanto il mondo finanziario accoglie l’operazione con entusiasmo, tenendo presenti le differenze rispetto, ad esempio, a quanto speso da Daimler. Con questi numeri quando sento la Cgil dire che non si conoscono le ricadute di tutto ciò, beh, mi sembra quantomeno paradossale.

Forse qualcuno dimentica i numeri di Maserati e 500?
Maserati è riuscita ad imporsi su quel mercato grazie alla rete commerciale Chrysler. La 500 sta registrando numeri significativi. Due fatti che vorranno pur dire qualcosa, o no?

Quali altri effetti avrà secondo lei l’intesa raggiunta tra Fiat e Chrysler?
In Italia abbiamo un sistema Paese che sta cambiando totalmente, come si vede nel settore manifatturiero: quello di massa, salvo le nicchie, si fa in Cina, Corea e Vietnam. La nostra manifattura sta andando in un’altra direzione, come insegna l’esempio di Indesit che delocalizza produzioni basse e riporta in Italia quelle alte. Se il sindacato cambiasse registro potremmo fare delle cose veramente importanti nel nostro Paese. Poi il resto ce lo deve mettere la politica, con le tasse sul lavoro ancora insopportabili, con una rigidità di quel mercato che non aiuta ma zavorra. Sono fattori che frenano qualsiasi tipo di sviluppo. Mentre sull’evoluzione del sindacato nutro ancora qualche speranza, sulla politica ci ho rinunciato.

twitter@FDepalo


CONDIVIDI SU:

Gallerie fotografiche correlate

×

Iscriviti alla newsletter