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Come i farmaci influenzano la demografia

sanità

Negli USA, dove risiedono le principali aziende del Big Pharma, il costo delle cure mediche è passato dal 4,5% del PIL nel 1950 a oltre il 16% nel 2004 fino al 17, 9 % nel 2011. Con la previsione che, nel 2012, i costi sanitari USA in rapporto al PIL saranno di un quinto dell’intero prodotto interno lordo nordamericano.

Tra l’altro, la struttura della sanità e dei suoi costi negli Stati Uniti è fortemente diversa, per motivi politici e culturali (e perfino antropologici) da quella dei paesi UE, ma, in ogni caso, nell’Italia del welfare state regionalistico il costo della sanità/PIL è, sempre nel 2011, del 9,5% con previsione di stabilità, mentre nella Germania che pure inventò, nell’accordo tra Otto Von Bismarck e il capo socialdemocratico Ferdinand De Lassalle, le “assicurazioni sociali obbligatorie”, il costo 2011 calcolato dalla Banca Mondiale del nesso spese sanitarie/PIL è di 11,1 %, con previsione nettamente calante.

Perché il free market USA costa di più del socialismo di Stato della Vecchia Europa, allora?

La rete della assistenza sanitaria statunitense è pubblico-privata, e nella Federazione il 62 % degli ospedali è non-profit, il 20% sono privati, 18% delle strutture sanitarie sono regolarmente for profit.

Negli ultimi tre anni, il 62% dei cittadini USA attivi riceveva una assicurazione sanitaria da parte del datore di lavoro, solo 5.6% dei lavoratori nordamericani comprava regolarmente sul mercato privato una assicurazione per la salute (e non per la vecchiaia) mentre solo il 15% era iscritto nei registri della sanità pubblica. Il Medicare copre poi solo gli individui oltre i 65 anni, con la parte A che copre i costi di ospedalizzazione, quella B le parcelle dei medici, che sono comunque market-oriented, mentre la parte finale concede copertura, totale o parziale, per i costi delle medicine4. Il Medicare non copre, istituzionalmente, il nursing, creando un disincentivo per le nuove nascite, si occupa poco della medicina preventiva, non copre affatto le cure dentistiche, oculistiche e per le malattie dell’udito.

Infatti, il 22% del reddito degli over 65 aventi diritto al servizio federale deve essere utilizzato per integrare le forniture governative.

Il Medicaid è invece un programma federale, anch’esso integrabile dai vari Stati componenti, per i cittadini a ridotto o nullo reddito.

Non vengono “coperti” dal servizio i genitori senza figli, ma questo non crea ovviamente un incentivo favorevole alla crescita demografica, e molti dei criteri di eligibility sono definiti dai singoli Stati.

Medicaid è finanziato in compartecipazione dai singoli Stati e dal governo federale, e offre una copertura ampia per tutti i farmaci, ma il mercato accetta con difficoltà i documenti Medicaid, dato che sono rimborsati con notevole lentezza.

Lo Stato USA offre anche un programma di assicurazione per i bambini, il S-CHIP, e quello per i Veterani, il VA, che spesso non garantisce la completa gratuità delle cure. Si tratta sempre quindi di comprare, al prezzo di mercato, delle assicurazioni sanitarie che, naturalmente, sono misurate sul rischio di impresa e sul calcolo attuariale delle finanziarie che le concedono.

Il calcolo delle aziende del settore è inevitabilmente risk-averse, e qundi, paradossalmente ma non tanto, premia la protezione per i sani e diminuisce, spesso oltre il minimo socialmente accettabile, la titela per i non ancora o i già malati, il che quindi genera una liquidità para-speculativa dei fondi sanitari e delle società del settore che le equipara alle banche di affari.

Le reti privatistiche della sanità USA riguardano in primo luogo quelle sostenute dalle imprese private nei confronti dei loro dipendenti, e sono gestite da aziende del tutto private, sia profit che non-profit.

Il mercato libero delle assicurazioni sanitarie copre pi quell’area di cittadini che produce reddito da attività autonoma o è in pensione.

Qual’è quindi l’effetto demografico di questo sistema sulla curva della popolazione USA?

Il primo problema è quello dei baby boomers, che espanderanno la spesa sanitaria federale, che è il settore a maggiore crescita nelle uscite, appena entreranno nell’area di sostegno prevista. Nel 1935, quando il Medicare fu varato, in piena età rooseveltiana, quando i tecnocrati USA venivano in Italia a studiare il corporativismo, l’età media degli americani era di 62 anni, ma Roosevelt fissò univocamente l’età del retirement a 65, contro il consiglio dei suoi tecnici.

Negli anni ’60 e ’70, solo il 20-30% dei lavoratori USA affermava di essersi posto in pensione perché voleva farlo, senza costrizioni legate allo stato di salute che incapacitava al lavoro.

Ma nel 2008 l’aspettativa media di vita dei cittadini nordamericani era di 77,8 anni, e dovrebbe arrivare a 80,2 anni nel 2030.

Nel frattempo, anche per le stesse strutture non nativiste della normativa sanitaria USA, la fertilità media è arrivata a 1,8, 1,9 nati per donna, e quindi il tasso di copertura tra nascite, morti e giovani in età produttiva che pagano il supporto agli anziani retired o malati è tecnicamente impossibile.

Ma c’è dell’altro: se il costo delle medicine fa, oggi, circa il 10% delle spese sanitarie USA, non vi sono controlli sulla formazione dei prezzi dei farmaci, con le aziende produttrici che sostengono che gli alti prezzi si devono ai costi elevati di Ricerca&Sviluppo.

Infatti, sono i costi per le medicine da ricetta che crescono con maggiore rapidità, negli USA, con effetti evidentemente positivi sul livello generale di salute.

Nel 2007 si era arrivati a una massa di costi per le prescription drugs di 3,8 miliardi di USD, con un 22% pagato direttamente dai consumatori-pazienti, 44% dalle assicurazioni private, e 34% dai fondi pubblici.

Oggi, malgrado la leggera diminuzione della spesa sanitaria per farmaci, siamo ad una crescita della quota farmacologica della spesa sanitaria USA del 5,3%.

Naturalmente, vi è una relazione inversa tra l’aumento della spesa farmacologica e i costi delle visite mediche e dei trattamenti ospedalieri, ma si tratta di correlazioni statistiche difficili a dimostrare in modo non-intuitivo.

Quindi, il sistema USA trasferisce selettivamente risorse statali e federali alle imprese assicurative e farmaceutiche, che poi rivestono con propri brevetti e criteri commerciali i prodotti finanziati dalla R&D pagata dal contribuente, che sostiene anche il costo aggiuntivo dell’oligopolio assicurativo USA.

Malgrado questo, gli Stati Uniti, che hanno la massima spesa farmaceutica per capita del mondo (144 USD, dato del 2008) e oggi a 995, (l’Italia è a 482 USD nel 2012) sono però ad una aspettativa di vita media di 78, 62 anni, al 51° posto, prima del Bahrain e del Cile ma dopo Guam e il Portogallo.

Tutti i Paesi che mostrano aspettative di vita maggiori degli USA hanno una qualche forma di controllo dei prezzi dei farmaci.

Le majors del farmaco hanno speso, nel 2004, il 24,4% dei loro profitti in marketing, che non è propriamente una spesa di Ricerca & Sviluppo, mentre solo il 13, 4% è andato propriamente alla ricerca scientifica.

Quindi, il sistema sanitario USA favorisce gli oligopoli assicurativi e sanitari, seleziona inversamente gli aventi titolo ai trattamenti semi-gratuiti tra le fasce meno prolifiche della popolazione, stimolando la denatalità, la quale ha poi effetti dirompenti, che già si cominciano a percepire, sul tasso di sostituzione tra pensionati e lavoratori, con un ratio attuale di 2,4 lavoratori attivi per ogni pensionato.

Il tasso di fertilità degli Stati Uniti è oggi al 121° posto nel mondo, sopra quello delle Marianne del Nord e sotto il tasso della Nuova Zelanda.

Se a questo aggiungiamo che gli USA sono al primo posto per il costo dell’health care, prima della Norvegia e della Svizzera, bastioni del Welfare State classico, abbiamo la percezione immediata della quota di reddito che, indipendentemente dai risultati ottenuti, viene trasferita dalle tasche dei cittadini al sistema sanitario e assicurativo pubblico-privato USA.

In Cina, l’altro competitor globale degli Stati Uniti, il rapporto tra struttura demografica, tra questa e il sistema produttivo, e ancora tra demografia sanitaria ed economia è perfino più complesso di quanto non sia apparso, nelle nostre brevi note, nel quadrante nordamericano.

La politica “del figlio unico” non serve più: la mitologia maoista e delle “Quattro Modernizzazioni” dell’aborto indiscriminato e appunto della one child policy ha disarticolato la sequenza delle generazioni in Cina, ponendo problemi immensi riguardanti la sostenibilità del sistema produttivo, con i pochi giovani che entrano in esso selezionati spesso in modo avverso dalla politica del figlio unico, e la grande massa di anziani che si troveranno comunque a dover essere assistiti da uno Stato che ha giocato tutto, e finora ha vinto, sulla industrializzazione forzata e quindi sulla parcellizzazione familiare.

La Banca Mondiale prevede un dependency ratio della Cina che andrà dal 37,4% del 2015 al rilevantissimo 61,8% del 2050.

Il dependency ratio, lo ricordiamo, è il rapporto tra coloro che non fanno parte del sistema produttivo rispetto a quelli che sono ancora attivi nell’economia di un Paese.

Nella tradiziona analitica dei geografi economici contemporanei, e vedremo quanto questa prospettiva è utile per capire i trends sanitario-demografici cinesi, maggiore la quota di persone anziane nella popolazione totale, maggiore il reddito pro-capite, ma più elevata la quota di PIL per lavoratore, aumenta anche la produttività, e si realizza quello che gli analisti oggi chiamano il “secondo dividendo demografico”.

Esso deve essere gestito in asset finanziari e soprattutto in risparmi privati, poiché, se questo non accade, e quindi gli anziani dipendono dai familiari attivi, il secondo dividendo, come è intuitivo, diminuisce invece di crescere.

Per la Cina, se i risparmi privati della popolazione fuori dal sistema produttivo sono tali da finanziare una quota di aumento del PIL per capita dei lavoratori, e indirettamente questo fa, come è ovvio, aumentare la produttività, l’equazione del “secondo dividendo demografico” potrebbe aver luogo, senza peraltro impedire la penetrazione della Cina nei mercati del “Primo Mondo”.

Oggi, la quota di spesa per la salute nel PIL cinese è del 4,7%, irrisoria rispetto ai colossi del Welfare State europeo e alla lunga scia del New Deal USA.

Dal 2009 in poi, il governo di Pechino ha messo in atto un sostegno specifico alla rete della Salute pubblica cinese, immettendo 850 miliardi di Renmimbi nella struttura, il che porterà, alla fine della operazione, ad una quota del 5,5% di spesa sanitaria sul PIL.

E’ chiaro che ciò implica programmi rilevanti di nuovi investimenti delle majors farmaceutiche nel Paese del Dragone Rosso.

Con due problemi che nel “Primo Mondo” che Mao Zedong indicava come nemico delle “periferie del mondo” che la Cina doveva egemonizzare non ci sono più da molto tempo: una dissimmetria estrema tra città e campagna, e una domanda diffusa per farmaci, in Cina di migliore qualità ed efficacia rispetto a quelli in uso standard in Occidente.

E, anche qui, abbiamo la struttura dei costi sanitari che abbiamo già osservato, mutatis mutandis, negli USA: il 50% della spesa sanitaria del governo di Pechino è finalizzata all’acquisto di farmaci, un tasso perfino superiore al 13% degli ultimi rilevamenti statistici in USA.

La spesa sanitaria ridotta a spesa per il farmaco è sempre strutturalmente in crescita, e risulta alla fine incontrollabile, mentre una spesa sanitaria strutturata equamente in profilassi, controllo dei cibi e delle acque, e infine medicina preventiva di massa, poi con una quota inevitabile di spesa/farmaco, è si più efficace e meno costosa, ma modifica strutturalmente i costi di produzione e quindi la produttività, indipendentemente dalla realizzazione o meno del “secondo dividendo demografico”.

Peraltro, ancora in questi anni e si prevede anche nel prossimo futuro, la spesa sanitaria in farmaci di ogni cittadino cinese è di USD 35,1, (dato del 2009) una cifra tra le più basse del mondo.

C’è quindi ancora spazio di azione per Big Pharma, in Cina.

Sempre in Cina, la spesa per farmaci è quasi raddoppiata nel 2013, con un +20% nelle campagne e nelle reti ospedaliere, mentre la spesa farmaceutica è arrivata a un +40% nelle aree urbane e siamo a un +13% nelle farmacie retail.

Ma nelle aree urbane e costiere il mercato del farmaco, in Cina, è coperto soprattutto dai generici e dai farmaci “di banco”, gli OTC.

La liquidità spesa in OTC vale, nel 2012, 170 miliardi di Yuan, con una previsione di crescita del 18% fino al 2020.

L’OTC è il regno dei grandi brand globali, e la Cina, secondo IMS Health, dovrebbe divenire, nel 2020, il primo mercato nazionale per i farmaci nel mondo, con una spesa interna di oltre 315 miliardi di USD.

La struttura di questo booming market è semplice: un forte investimento pubblico a medio termine, collegato ad una quota maggiore (maggiore delle nostre affluent classes) di spesa sanitaria da parte dell’immensa quantità di ricchi e molto ricchi che il sistema para-protezionista della Cina ha prodotto e continuerà sicuramente a produrre.

La spesa libera dei cittadini cinesi, a parte i farmaci OTC, non può non riferirsi a malattie tipiche e particolarmente diffuse: vi sarà quindi una spesa in crescita per i farmaci contro l’ipertensione, un mercato che dovrebbe raddoppiare nel 2014, con una quota di prodotto che prenderà la via dei mercati esteri.

Anche la medicina tradizionale cinese, che ha uno zoccolo duro nei consumatori delle campagne, salirà, per i farmaci registrati, del 23%.

Il mercato del farmaco cinese, però, proprio dopo la riforma del 2009, ha una struttura “socialista”: nell’Agosto di quell’anno il ministero competente cinese ha pubblicato una lista di 307 medicine essenziali che sarebbero state disponibili sul mercato a prezzi pesantemente sussidiati.

Nel 2010, una ulteriore diminuzione dei tetti di prezzo per molti farmaci prodotti da aziende straniere operanti in Cina ha portato alla riduzione del prezzo unitario finale per molte altre preparazioni che precedentemente erano state trattate con prezzi da mercato libero, e infine, nel 2010, sono stati ridotti i prezzi di 174 farmaci prodotti da aziende cinesi su brevetti che sono cessati.

Per le campagne, il governo di Pechino ha imposto il New Rural Cooperative Medical Scheme del 2003, un meccanismo che impone alle famiglie l’acquisto di una assicurazione sanitaria com premi minimi da 10 o 20 Renmimbi per persona, sussidtai dai governi centrali e locali con altri fondi, e che ha raggiunto, sinota, come schema finanziario e sanitario, una popolazione rurale di 800 milioni di persone.

Naturalmente, questo sistema permette una analisi dei costi per area, zona e tipologia di morbilità, diminuendo il rischio generico (che è un costo rilevante per i nostri sistemi di assicurazione universali) e adattando, con elenchi specifici di medicine e trattamenti, il costo medio all’efficacia degli effetti per zona, area, fascia demografica. Una salute inventata per tenere i contadini cinesi sui campi, obiettivo antico anche per Mao Zedong, e per migliorare il rendimento e la produttività del lavoro agricolo, tale da renderlo, se non attraente, almeno equipollente, come soddisfazione materiale, a quello delle città della costa, che ogni governo a Pechino cerca di diminuire in dimensione demografica.

Per i residenti delle città, il governo del PCC ha pensato alla National Reimbursement Drug List, posta in atto sempre nel 2009, che prevede il rimborso totale o parziale della urban employee basic medical insurance e della urban resident basic medical insurance.

Secondo le fonti IHS, vi sono oltre 2100 prodotti farmaceutici nelle ultime disposizioni del NRDL, di cui 1140 sono prodotte dai “diavoli occidentali” e il resto è invece il frutto della grande tradizione medica autoctona cinese.

Nella Lista A del NRDL si trovano 349 farmaci-base occidentali, obbligatori in ogni area del Paese e rimborsabili al 100% del prezzo.

Nella lista B si trovano farmaci innovativi e brevetti terapeutici registrati in Occidente. Si tratta di preparazione rimborsabili fino a determinate soglie, decise dai governi locali, in funzione delle loro disponibilità e della situazione sanitaria.

Le medicine ospedaliere sono invece valutate, nel prezzo, dalle offerte dei produttori o dei distributori ai cluster di aziende sanitarie che ne fanno richiesta, un processo che ha luogo ogni due anni.

Quindi, l’obiettivo dei dirigenti di Pechino, in questo settore in cui si intersecano scelte demografiche essenziali per il futuro della Cina e necessità di migliorare la salute del popolo senza cedere del tutto ai “diavoli occidentali” è quella di selezionare la rete del farmaco, non accettare passivamente l’ideologia della cura implicita nelle terapie occidentali, sostenendo anche il mercato del prodotto tradizionale e, infine, adattare la tutela della salute alla permanenza dei contadini sui loro campi e al miglioramento della produttività costiera.

In Occidente, in media, la spesa per la salute è, a lungo termine, insostenibile economicamente: la suddetta spesa è cresciuta del 50% in quasi tutti i Paesi sviluppati tra gli anni ’70 e i primi anni ’80, e la spesa sanitaria, lo abbiamo visto anche questo, influenza positivamente la crescita e la produttività aggregata.

Nell’Europa a 15, però, a tassi fissi di strutture della produzione e di tassi di immigrazione, la forza-lavoro dovrebbe calare di quasi 25 milioni di persone nel 2050, il -14% del dato attuale, preso al massimo della espansione quantitativa dei dati,raggiunta nel 2010.

Diminuiscono, in Europa, soprattutto i giovani lavoratori e quelli della fascia demografica tra i 30 e i 40 anni, mentre il gruppo dei “vecchi” lavoratori aumenterà in UE del 5-6%.

Ma perché sale la spesa sanitaria nel “Primo Mondo” mentre invecchia l’intera struttura demografica e produttiva? Vediamo: in primo luogo, la espansione della domanda di salute, grazie alla comprensività dei piani di tutela e assicurazione sanitaria, tende inevitabilmente a stimolare anche la domanda aggregata.

D’altra parte, l’aumento della aspettativa di vita è derivato, nel “Primo Mondo”, nella prima parte del secolo scorso, dall’aumento del tasso di fertilità, mentre nella seconda fase del XX secolo il miglioramento delle condizioni di vita dei bambini ( i piani di social security) e degli anziani insieme ha favorito il picco dell’età media.

Allora, qual’è il costo medio dell’innovazione medica sulla spesa sanitaria e quindi, indirettamente, per una media attuale del 1,3%, sulla durata in vita della popolazione più a rischio?

In termini attuali, la quota della spesa per innovazione nella sanità, pubblica o privata, è elevata come costo-capitale iniziale ma è significativamente più bassa, a lungo andare, dei costi attuali di mantenimento delle terapie standard a medio basso livello tecnologico.

Valutando noi la media delle tecnologie in fase di entrata nel sistema sanitario, ovvero la diagnostica (e terapia) antitumorale, la gestione delle malattie da privazione totale o parziale della motilità, la creazione dei farmaci on demand, e infine la chirurgia robotica, possiamo calcolare, in modo molto generico ma comunque significativo, un risparmio del 18% medio, su ogni terapia, delle nuove tecnologie sanitarie rispetto a quelle alle quali siamo abituali. Ma a medio-lungo termine.

Per le sindromi di massa, si tratta di evitare, se sia ancora possibile, l’epidemia di obesità che dagli USA sta raggiungendo l’Europa e, stranamente, alcuni paesi in via di sviluppo; una sindrome di massa che colpisce 36 stati dell’Unione nordamericana con tassi di oltre il 25% o più (dati del 2010) e 12 Stati con livelli di fat guys and girls di oltre il 30%.

In Italia, lo Stato spende oggi oltre 23 miliardi di Euro l’anno per curare problemi correlati direttamente all’obesità, e si tratta del 7% della spesa totale del SSN.

In Francia, altro paese del buon mangiare, i sovrappeso giovanili sono il 34 % della popolazione tra i 18-35 anni.

La distruzione dei legami familiari, l’ansia da realizzazione lavorativa, l’utilizzazione acritica di modelli di comportamento veicolati da una rete di media di massa dominata dagli stili di vita USA, che sembrano ancora dominanti in Occidente, tutto congiura verso un aumento dell’obesità media dei giovani, con tutti i pericoli, ben noti, di carattere epidemiologico e per i bilanci dello Stato che possiamo ben immaginare.

Ecco un primo punto: oltre alle terapie, ogni tipo di prassi sanitaria deve riguardare in ogni modo il cibo e le pratiche sessuali, da questi due assi dipende, oggi, la demografia sanitaria.

L’inattività fisica pone a rischio, nel Regno Unito, il 74% dei giovani dai 15 ai 20 anni, l’attitudine al crimine, così ben diffusa dalla TV e dai B-Movies, vale un altro 42% di rischio sanitario, e non ci riferiamo qui solo al ruolo di vittima eventuale, mentre il bere alcoolici in modo indiscriminato vale un 34% di rischio sanitario.

Tutti atteggiamenti culturalmente indotti, nessuno di questi è causato direttamente dalla condizione sociale o dalle culture familiari di origine, sempre più irrilevanti, peraltro.

Per il secondo argomento, è inevitabile il riferimento primario alle pratiche abortive.

Negli USA, alfieri da sempre della “demografia fai-da-te” che implica una vasta e sistematica attività abortiva, socialmente accettata, i dati sono oggi che il 39% delle donne senza figli sceglie l’aborto, con le “hispanic women” tradizionalmente restie a tale pratica, che chiedono di abortire per il 34% del totale delle richieste.

L’85% delle donne che fanno richiesta di tali pratiche non è sposata, mentre il 42% delle donne che intendono abortire è sotto la soglia di povertà, sempre in USA, con il 27% tra queste che guadagnano meno della metà di quanto è calcolato come poverty line. Quindi con un 69% totale di donne povere che ricorrono all’aborto.

Sempre negli USA, il 34,5% di donne di colore ha subito almeno un aborto, e questo permette all’Ufficio Satistico del governo USA di affermare che il black group del totale della popolazione USA è cresciuto ad un tasso minore rispetto alle altre minoranze razziali.

Il costo unitario di una operazione abortiva è, negli USA, di circa 372 USD in media, per un aborto entro i tre mesi, e il costo tende a crescere per la durata della gravidanza e per il secondo o terzo intervento.

Solo il 46% delle lavoratrici americane è coperto da una assicurazione sanitaria che include tale pratica. In Europa, come è noto, il costo della prassi abortiva legale è del tutto compensato dai vari sistemi sanitari pubblici nazionali.

Ma qual’è l’economia politica dell’aborto? Negli USA gli aborti aumentano in fase di recessione economica, mentre tendono a diminuire di numero nei momenti di crescita generalizzata del reddito. Si tratta quindi di un “bene secondario”. Il costo della contraccezione, allora, che varia da 15 a 50 USD al mese, è invece una spesa costante che molte donne americane non si possono permettere.

Il lavoro part-time o non garantito è un evidente stimolo alla prassi abortiva, che seleziona quindi tendenzialmente i “figli dei ricchi” o della middle class e blocca lo stato riproduttivo delle minoranze razziali e del proletariato che, come dice la parola stessa, si definiva proprio grazie al gran numero di figli da immettere immediatamente nel ciclo lavorativo, soprattutto illegale.

E questa minore crescita relativa dei gruppi etnici sta avvenendo anche per la minoranza ispanica, più sensibile ai modelli culturali lowbrow immessi dal potente sistema della public communication USA.

Ovvero: si tratta, in termini volutamente semplificati, di indurre una deformazione demografica che sposti verso l’alto, artificialmente, l’età media, e anche quella produttiva, ma destabilizzi in modo definitivo, tramite anche l’aborto, il rapporto tra anziani fuori dalla produzione e giovani presenti nel sistema produttivo.

Gli USA, tramite la distribuzione delle pratiche abortive, anche delle più efferate come il D&X, propone tra le righe una diminuzione artificiale della fertilità delle sue minoranze, mentre si mantiene stabile il tasso abortivo, minore, delle donne WASP, White, Anglosaxon, Protestant.

Si potrebbe qui parlare di tecniche di “guerra demografica”, utilizzando i modelli di consumo e di comportamento moderni che sono di più facile distribuzione verso un pubblico, appunto, lowbrow.

In Italia si è assistito ad un decremento degli aborti, secondo l’ultima Relazione del Governo, del 4,9% rispetto all’anno precedente, con un ulteriore decremento di ben il 54,9% rispetto al 1982.

Aumento della quota di lavoro femminile, trasformazione del costume e dei comportamenti rispetto alla “ragazza-madre”, percezione di massa del rischio di desertificazione demografica che pesa sul nostro Paese, e che non viene risolto dalla quota di immigrazione e dal suo maggiore tasso di fertilità.

Il decremento demografico italiano è, secondo gli ultimi dati, del -2,3% con picchi nel Sud e nel Centro (-2,5%) mentre i nuovi nati stranieri in Italia sono pari al 14,8% (dato ISTAT) del totale.

Se in USA, anche tramite la nuova legislazione obamiana la spesa sanitaria ha scarsi effetti sul sistema sociale e la struttura demografica, favorendo sempre e comunque l’high income, in Italia la spesa sanitaria, che rappresenta il 25% della spesa per protezione sociale, ovvero 412.255 milioni di Euro nel 2010, ultimo anno di cui abbiamo serie statistiche complete, con un totale di 113,5 miliardi di Euro in totale, per la somma di tutte le attività, previdenza, assistenza, spesa per il farmaco, che ruotano intorno ai fondi SSN.

Migliora quindi la spesa e la qualità della vita per la popolazione italiana anziana, malgrado la rimodulazione delle politiche sanitarie dopo la crisi economico-finanziaria del 2008, che conta per un 10,3% del totale (range 65-74 anni) mentre gli over 75 sono il 10%.

Con questa popolazione invecchiata, e che assorbe buona parte dei costi del SSN, si deve confrontare, e in parte lo abbiamo già notato, il TFT, Tasso di Fecondità Totale, che è significativamente più basso rispetto al valore di sostituzione, 2,1 nati per donna, e che oggi è in Italia, con trend discendente, di 1,39 npd.

Se quindi l’attivo della bilancia dei pagamenti di parte corrente è di circa 9 miliardi di Euro, facendo la media tra le varie situazioni durante le quali noi scriviamo (inizio 2014) la correzione di parte corrente dei conti con l’Estero è stata positivamente del -2,5% circa, e se il continuo apprezzamento dell’Euro per i core creditors dell’UE è un’ottima medicina per i loro mali da “rientro”, allora , se il totale degli occupati in Italia è di 22 milioni 596mila cittadini71, e la loro struttura demografica è asimmetrica, con una crescita, per esempio, degli occupati over 50 di circa l’1,4% rispetto all’anno precedente, allora, rebus sic stantibus, dobbiamo verificare i Tassi di Sostituzione lei vari comparti produttivi: in Agricoltura abbiamo un TdS del l’8%, contro il 20% di Francia e Germania e addirittura il 50% della Polonia.

Il Tasso di Sostituzione nell’Industria è, secondo gli ultimi dati disponibili, di – 2,4%, con una maggiore quota di quelli a tempo indeterminato, che lasciano il posto ai “contratti atipici”.

Ovvero, nei due prossimi anni, per quello che è prevedibile fino a qui, la quota degli occupati è 22,7 milioni, con una quota di disoccupati di 2,97 milioni, come al Febbraio 2013, allora, con u tasso di occupazione del 56,4%, sempre alla stessa data, il costo sanitario di 113 miliardi ca. e la stabilità, se tutto va bene, della non-crescita del PIL, e se la crescita della spesa sanitaria italiana, grazie alla struttura demografica, aumenterà nel 2050 fin quasi al 10% del PIL, allora il costo per ogni occupato sul salario della spesa sanitaria è di circa il 14,8%, con un break-even point (ma sarebbe più giusto chiamarlo break-down point di insolvibilità del SSN entro, rebus sic stantibus, a metà del 2023.

Quindi, o si riforma il sistema sanitario italiano con criteri nuovi, che non imitino il boom privatistico dei costi sanitari USA e la strutturale inefficacia del Medicare-Medicaid nel sostenere le fasce a basso reddito, che pure sono e saranno maggioritarie nella nostra domanda di salute, oppure si crea un diverso cespite di finanziamento del costo crescente della salute in rapporto al PIL e, soprattutto, alla produttività del lavoro.

Ma questo implica una analisi dei trends economici e produttivi sia del nostro Paese che dell’insieme delle aree del “Primo Mondo”, per dirla sempre con l’espressione dei cinesi.

Nei prossimi 15 anni, secondo l’Economist Intelligence Unit anche se non si può parlare ancora di “secolo dell’Asia”, il ritorno della situazione medievale in cui erano le economie in crescita della penisola eurasiatica a cercare la Via della Seta verso l’Est, continuerà l’espansione di India e Cina, che probabilmente verranno in conflitto geoeconomico tra di loro, e con ogni probabilità entro il 2020 le economie non OECD manterranno una quota di crescita economica ben maggiore di quelle dell’area OECD.

Il vantaggio salariale sarà ancora il motivo fondamentale per lo switching delle produzioni labor intensive verso l’Est e il Sud del Mondo.

Il profilo demografico positivo degli USA sosterrà la loro crescita, un ulteriore elemento di guerra geoeconomica tra le due sponde dell’Atlantico, che Washington predispone anche sul piano demografico, come possiamo intuire da quanto abbiamo detto supra, mentre sarà proprio l’invecchiamento generalizzato della popolazione in Europa a inibire lo sviluppo economico del Vecchio Continente.

La forza lavoro nei mercati maturi e a crescita bloccata diverrà via via sempre più specializzata, più anziana e, soprattutto, con una maggior quota di manodopera femminile, con evidenti effetti sulla fertilità (che potrebbe ulteriormente ridursi) e sulla lunghezza media della vita.

Saranno gli anni della personalizzazione del prodotto, favorita dall’applicazione delle tecnologie informatiche a tutta la catena produttiva, mentre il mercato asiatico fornirà, a sempre maggior costo unitario, in funzione dell’aumento dei loro costi sociali di produzione e della maturità delle loro linee produttive, i prodotti-base.

E questo sarà un dato di grande importanza anche per i prodotti sanitari e i farmaci.

Per quanto riguarda la crescita del settore del farmaco e della market healthcare, nei prossimi 15 anni il settore dovrebbe crescere, negli USA, più di tutti gli altri comparti produttivi, mentre Cina e India potrebbero divenire l’area di sviluppo e di ricerca per i nuovi biofarmaci e i brevetti in fase di definizione, dato il basso costo della R&D locale e l’alta qualità dei ricercatori prodotti dalle loro università.

Saranno gli anni delle biotecnologie, mentre i costi di produzione sempre più elevati nei mercati del “Primo Mondo” e la scarsità di buoni farmaci nei Paesi in Via di Sviluppo creeranno un nuovo spazio per le imprese private del settore.

I due trends del “Primo Mondo”, l’invecchiamento generalizzato della popolazione e la riduzione della fertilità avranno complessi effetti sulla strategia corporate di Big Pharma.

Il primo effetto è, come è facile prevedere, l’aumento dei costi per la spesa farmacologica in ogni Paese invecchiato, con una media di aumento prevista tra il 16% e il 20% rispetto alla spesa standard attuale.

Come sostenere questa spesa ulteriore in sistemi già oltre il limite della sostenibilità economica? Una scelta potrebbe essere quella di separare la platea dei “vecchi” tra quelli che possono continuare a lavorare, sia pure in modo diverso da quello del loro fiore degli anni, dalla quota di anziani malati e incapaci di riprendere una qualsiasi attività.

Un’altra ipotesi potrebbe essere quella della gestione sanitaria su scelta, con monitoraggi di massa per identificare le platee più bisognose di cure, concentrando su quelle la maggior quota di costi.

Aumenterà il costo del lavoro, come abbiamo notato supra per il “Caso Italia”, a causa della integrazione dei costi sanitari nel computo della produttività, e questo spingerà verso Oriente ancora maggiori quote di attività labor intensive che, peraltro, richiedono manodopera giovane e in ottima salute, quella che i mass media occidentali fanno di tutto per non generare.

Saranno gli anni delle “nuove malattie”, soprattutto virali, ad alta resistenza al farmaco tradizionale, e delle malattie croniche da invecchiamento, come il morbo di Parkinson e l’Alzheimer, o le comorbilità legate al diabete e alle patologie respiratorie o coronariche.

Aumenteranno le resistenze ai vecchi antibiotici, derivanti dalla coevoluzione tra homo sapiens e i ceppi batterici e virali che lo hanno accompagnato durante gli ultimi tre secoli, e questo sarà uno dei grandi test globali per i nuovi farmaci di massa.

Saranno introdotti nuovi tipi di farmaco, capaci di modificare il DNA dei pazienti per evitare alcune malattie di notoria origine genetica, il che modificherà la struttura della spesa sanitaria per abitante, e porterà ancora più in alto, e rapidamente, la durata della vita media.

Ma cresceranno anche i mercati orientali del farmaco: la spesa sanitaria dell’India, per esempio, sarà quasi triplicata, mentre la Cina, lo abbiamo visto, potrebbe essere il prossimo global market per le multinazionali del farmaco.

Quindi, aumento selettivo dei costi sanitari e aumento non selettivo degli investimenti necessari per l’upgrade delle imprese del farmaco.

Ma vediamo meglio il nesso tra fenomeni demografici e spesa per il farmaco.

Se dividiamo la popolazione nelle tradizionali coorti demografiche, 0-19, 20-29, 30-49, 50-59, 60+, osserviamo che negli USA la coorte 30-49 ha uno sviluppo simile a quella 30-49, mentre quella 60+ cresce rapidamente nel tempo tra il 1910 e il 2020.

Per l’Europa, dal 2004 vi sono più cittadini UE oltre i 65 anni che al di sotto dei 15.

Cresce l’area, anche dal punto di vista della sostenibilità dei costi, dei NCD, Chronic Noncommunicable Diseases, con un tasso simile al resto del “Primo Mondo”.

Le malattie ischemiche e cardiache sono ancora la quota di maggior costo per le finanze sanitarie europee, mentre si affaccia il costo rilevantissimo della depressione.

Le previsioni per la spesa e l’organizzazione dell’industria del farmaco in Europa sono sostanzialmente ambigue, come peraltro quelle dello stesso comparto negli USA, con la fine di molti brevetti e la difficoltà imprevedibile dei risultati di R&D.

Nel 2020 gli investimenti in biotecnologie dovrebbero essere stati ripagati dal mercato, mentre quelli riguardanti le medicine “personalizzate” ancora no, le barriere all’entrata nel mercato delle biotecnologie, grazie anche ai sovraredditi di Big Pharma in India e Cina con i vecchi brevetti, dovrebbero lentamente cadere, non vi sarà alcun investimento di rilievo nella riforma degli stili di vita, la società sviluppata sarà ancora patogenica, e aumenterà il potere informativo delle industrie a scapito di quello dei medici.

La media delle vendite a rischio di Big Pharma a causa della maturità dei brevetti è, al 2009, di una media di 48 preparazioni di massa su undici grandi multinazionali del farmaco, mentre le società che producono generici hanno raddoppiato le vendite ogni quattro anni.

I farmaci contraffatti sono cresciuti, sul piano delle vendite, del 40% dal 2002 al 2009, ma in generale la curva dei costi di produzione, mediata per tutte le aziende di Big Pharma, mostra la condizione di una industria fortemente immatura, il che fa pensare che, senza i sovraprofitti, non del tutto ovvi, in India e Cina, Big Pharma potrebbe non avere i capitali di investimento disponibili per il suo upgrade tecnologico e produttivo, e il rallentamento dell’arrivo di nuovi e più efficaci prodotti per le “nuove malattie” genererebbe costi del tutto insostenibili a medio-lungo termine sui sistemi sanitari nazionali.

D’altra parte, Novartis ha già perso una causa per un brevetto farmacologico in India, Merck ha subito un rifiuto giudiziario ad agire contro il generico Januvia, mentre i nuovi farmaci anticancro hanno dei prezzi, per remunerare in breve tempo gli investitori, eccezionalmente alti, del tutto fuori mercato per il paziente medio e addirittura per quello in buone condizioni economiche.

Ovvero, è probabile che le aziende farmaceutiche maggiori, rivolgendosi ai mercati dei capitali esterni al loro core business, siano costrette a produrre nuovi farmaci a prezzi del tutto inadatti a coprire, in tempi brevi, gli stessi costi di produzione, data la massiccia restrizione della loro dimensione ottimale di mercato.

Lo abbiamo visto: un farmaco costa, al valore del Dollaro USA 2005, 1,3 miliardi di USD il passaggio completo del farmaco dalla ideazione alla sua entrata sul mercato.

Il costo della ricerca più le varia fasi di testing richieste dalle varie autorità pubbliche del Farmaco vanno, sempre in media rispetto alla tipologia del farmaco da lanciare sul mercato, fino a 121 milioni USD per ogni singola molecola che abbia passato positivamente le fasi di testing e che abbia, dalle informazioni raccolte dall’azienda produttrice, una accettabile e intatta quota di mercato da saturare.

Ma poi ci sono i costi da capitale: soprattutto il “costo di opportunità”, che valuta la viability di altri investimenti più redditizi nello stesso o in altro settore, viene calcolato all’11% del totale, e siamo a 802 milioni di USD.

I tempi richiesti per la produzione di un nuovo farmaco sono solitamente dai nove ai dodici anni, con percentuali di successo ristrettissime: su 60.000 molecole brevettate, solo 1/6 di esse giungono allo stadio della brevettazione, e solo cento tra di esse divengono passibili di studio ulteriore e applicativo. Tra questi ultimi, sopravvivono alla prassi darwiniana delle molecole farmacologiche solo una o due, che sono quelle che hanno superato tutti i test di tossicità sull’uomo, una fase che dura due-tre anni.

La vita del brevetto effettiva è di 9-13 anni, quella commerciale è esattamente di venti anni.

Il che implica che il farmaco deve rendere almeno, al netto delle spese di distribuzione e dei guadagni degli intermediari, almeno 132 milioni/anno solo per ripagare il costo netto dell’investimento.

In media, i flussi di cassa divengono positivi solo dopo tre anni dopo il lancio, con il picco delle vendite a ridosso della maturità scientifica del farmaco, ovvero dopo 10-11 anni dal lancio.

Ma il fatto è che solo il 20% dei farmaci genera profitti elevati e costanti, e quindi la spesa per la diversificazione da parte delle imprese è un investimento-chiave per la sopravvivenza.

Eppure, molti analisti ritengono che il “modello DiMasi” per l’analisi dei costi di produzione del farmaco, quello che abbiamo riassunto supra, sia in effetti basato su una larga sopravvalutazione dei costi di R&D, che in primo luogo sono multipli: una stessa ricerca può portare, e di solito ciò accade, allo sviluppo di più molecole attive, e naturalmente il costo della progettazione di queste nuove molecole va diviso per il numero dei principi attivi scoperti.E nella R&D si computano anche costi non di ricerca, soprattutto da parte di Big Pharma.

IN secondo luogo, e lo abbiamo già notato, sono i fondi pubblici e, in UE, i finanziamenti comunitari, che valgono oggi 2 miliardi di Euro per il solo Innovative Medicine Initiative, per la sola drug discovery, oltre i 70 miliardi di Euro del progetto Horizon per la ricerca biomedica nelle università.

Negli USA, il sostegno pubblico alla ricerca farmacologica per le nuove molecole si sviluppa tramite il funding pubblico o delle associazioni di settore, con finanziamenti minori di quelli europei ma non certo trascurabili.

Ma c’è il marketing del farmaco, che è essenziale per il rientro dei capitali e per la temporizzazione dei profitti.

Il marketing delle grandi imprese farmaceutiche è, come si dice in gergo, multilevel: deve parlare con argomenti simili e, soprattutto, non contraddittori e mutualmente sinergici ai medici e ai ricercatori come al pubblico retail meno acculturato.

Il primo livello è quello del lobbying, per convincere i principali attori della comunicazione medica, i medici stessi, che sono peraltro i soggetti verso i quali il pubblico nutre fiducia e che devono rassicurare i pazienti.

Le aziende USA, la grande maggioranza di Big Pharma, sono il secondo business a maggior tasso di profitto del Nordamerica e pagano, ai dati del 2010, 526 lobbisti con “regali” per i medici intermedi e di base pari a 19 miliardi di USD.

In Italia, riportato da fonti confidenziali, si parla di una quota del 9% medio di costo del farmaco che va in “costi di intermediazione” e di informazione mirata nei confronti della classe medica e, in particolare, del sistema della sperimentazione pubblica.

Malgrado questa politica aggressiva e il nesso tra finanziamento pubblico e privato nella R&D del farmaco, sia negli USA che in Europa, e malgrado ancora che le aziende della salute siano ancora molto profitable, grazie soprattutto al loro aggressivo marketing, e qui viene in mente la battuta del CEO di una multinazionale europea del farmaco: “il nostro sogno è vendere medicine per i sani”, tutto il comparto manifesta la tipologia della impresa matura. Ed è proprio per questo che occorre una politica di marketing a tappeto e, soprattutto, occulta, tramite test, propaganda senza marchio, finte ONG, sostegno pesante ai medici e ai ricercatori “amici”.

La produttività della R&D farmacologica declina aumentano i costi di commercializzazione anche in un contesto oligopolistico, la riduzione dei margini di ROI (Return on Investment) fino ad un 5% totale che è indubbiamente fuori mercato rispetto al ROI di altri settori, come per esempio l’alimentare, tutto fa pensare che, malgrado l’aggressività delle politiche di marketing e la “scoperta” di nuove e fittizie malattie, il sistema del Big Pharma sia in fase di crisi strutturale.

Soluzioni? Mergers & Acquisitions nei mercati in fase di espansione dell’asse India-Cina-Brasile, dove la politica del farmaco blockbuster, quello notissimo che fa guadagnare anche per corpire le perdite in R&D e in vendite per i farmaci di nicchia, può ancora essere ripresa.

Passare poi da una logica del farmaco singolarmente preso ad un marketing della terapia, che presuppone anche indicazioni di vario genere sull’uso e sulla gestione del farmaco prescritto.

Le aziende tratteranno sempre di più i pazienti come consumatori e le scelte terapeutiche come strumenti per indurre necessità di marketing più o meno occulto presso i medici e nella grande platea dei malati, più o meno immaginari.

Big Pharma è diventato un global business nell’era dei farmaci blockbuster, quelli che tutti noi conosciamo e utilizziamo.

Ma, malgrado il marketing, che ottimizza i fattori di vendita ma non li modifica, e malgrado le aziende globali abbiano investito negli ultimi 10 anni più di 450 miliardi di USD in Ricerca & Sviluppo, e qui si comprendono anche i finanziamenti pubblici, la creazione di valore per gli azionisti è stata recentemente scarsa o addirittura nulla. La linea potrebbe essere, come consigliano alcune società di consulenza aziendale, di imitare le piccole aziende del farmaco di eccellenza: mirare alla massima customer satisfaction, che è facile in regimi di prezzi amministrati o garantiti dai sistemi di rimborso farrmacologico pubblico, e puntare ai settori che il blockbuster ha sempre trascurato: le malattie rare e metaboliche, le allergie, i tumori.

Ma giocare facile è una tentazione irresistibile: se la R&D è costosa e non permette questa nuova ingenua religione del “creare valore per gli azionisti”, non si capisce mai se a breve o a medio termine, allora c’è sempre la via di uscita del marketing aggressivo e più o meno occulto: in media le Big Pharma maggiori spendono per Ricerca e Sviluppo dei nuovi farmaci il 13,4% mentre il marketing per i vecchi ritrovati viene sostenuto con il 24, 4%.

Peraltro, le grandi case farmaceutiche evitano il più possibile la concorrenza dei farmaci generici, pagando la concorrenza per il ritardo nell’introduzione sul mercato del generico-equivalente (Pay-for-delay) o addirittura si assiste alla tecnica commerciale del Pay-to-go-away per evitare definitivamente l’introduzione del generico-equivalente.

Ma, sul piano di quella che potremmo definire la psyops di Big Pharma, occorre farsi alcune domande essenziali? a) perché molti medici prescrivono medicine con effetti solo marginalmente positivi? E perché si scelgono spesso farmaci con effetti collaterali, anche quando sarebbero disponibili sostanze maggiormente affidabili? E ancora: perché si prescrivono farmaci più costosi, a parità di effetto terapeutico?

Le fonti del medico sono, come è ovvio, la pubblicità del farmaco, i dati dei reports scientifici (spesso finanziati da Big Pharma) e le opinioni dei colleghi. Le scelte si riflettono sui sistemi assicurativi o di tipo SSN, che fungono da vera e propria banca per Big Pharma, che induce i farmaci a maggior costo unitario, per il periodo voluto, e quindi realizza un profitto sostanzialmente illecito rispetto alla linea farmaco a basso costo o equivalente-soddisfazione del paziente-riduzione dei costi per i SSN o le assiurazioni pubbliche o sostenute dal pubblico, come in USA dove, lo ricordiamo, non vi è valutazione del prezzo massimo del farmaco.

C’è qui spazio per la bribery al medico, la gestione dei social media per sostenere questa o quella preparazione, il sostegno collaterale alla carriera dei vari medici.

Ma si tratta di politiche di corto respiro, oltre che di scarso rilievo morale: se e quando occorreranno altri farmaci per le nuove terapie e malattie di massa, che l’aumento dell’età media indurrà tra breve, allora questa policy sarà dannosa, inutile e costosa.

Ma, in questo caso, c’è anche la possibilità di ricorrere al disease mongering, alla “creazione della coscienza della malattia”.

Le tecniche per questa azione sono ben note e, per esempio, riguardano anche le campagne per la vaccinazione contro il papillomavirus, o quelle per la vaccinazione contro le influenze stagionali.

Si tratta di identificare una “situazione sensibile” per il pubblico, di usare qui tutte le tecniche di spin informativo, come nelle campagne politiche, e poi promuovere il trattamento-soluzione, la “bottiglia di Dulcamara” che, come nell’Elisir d’Amore donizettiano, Ei corregge ogni difetto.

Quindi: la tendenza di Big Pharma è quella di durare oltre il tempo della scadenza dei brevetti sul mercato, o modificando leggermente la molecola in fase di scadenza o evitando con azioni di backmarketing l’entrata in campo dei generici; poi c’è la prospettiva di ripetere il meccanismo

blockbuster-farmaco a bassa redditività nei mercati in prossima espansione, che potrebbero ricostruire i margini di profitto iniziali di Big Pharma, poi, infine, c’è la possibilità, tramite una politica di forti Merger&Acquisitions, di diminuire i costi di produzione-commercializzazione andando dall’oligopolio verso un vero e proprio cartello globale del farmaco.

Giancarlo Elia Valori
Honorable des Academie des Sciences
de l’Institut de France

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