L’incredibile sviluppo tecnologico di questi anni ha permesso di abbattere i costi ed i tempi del sequenziamento del DNA. A tal punto che sono già sorte ditte che offrono il sequenziamento come servizio. Un mio amico americano si è fatto sequenziare il genoma per sapere se portatore di geni mutati che aumentano la probabilità di sviluppare malattie. E grazie ai servizi offerti dalla company è anche riuscito a ricostruire le sue origini europee.
Per la ricerca biomedica l’abbattimento dei costi ha significato la possibilità di mettere in piedi studi di epidemiologia genetica tesi ad identificare, tramite l’analisi di un gran numero di pazienti, se esistano specifici geni che, quando mutati, diano una probabilità maggior di sviluppare una certa malattia.
Ad esempio, si potrebbe sequenziare il genoma di 3000 individui affetti da tumore al pancreas, e chiedersi se ci siano o meno geni che conferiscono una predisposizione per questo tipo di tumore estremamente aggressivo. L’identificazione di un gene potrebbe permettere di sviluppare test diagnostici. Ad esempio studi di questo genere hanno permesso di identificare il gene BRCA1 (un acronimo per le due parole inglesi BReast CAncer) la cui mutazione aumenta la probabilità di sviluppare il tumore al seno. Nel caso di BRCA1 e del tumore al seno è possibile fare una prevenzione che consiste ne seguire costantemente i soggetti portatori del gene mutato arrivando nei casi estremi alla mastectomia preventiva come ha fatto Angelina Jolie.
Per tornare al nostro esempio dei 3000 pazienti con tumore al pancreas, può essere che durante l’analisi ci si renda conto che alcuni tra loro sono portatori di mutazioni in geni associati ad altre malattie che, come nel caso di BRCA e del tumore al seno, sono curabili se c’è una diagnosi precoce. Può anche essere che nel frattempo il nostro paziente arruolato volontariamente nello studio epidemiologico sia morto. Allora si pone una un problema. Che facciamo dell’informazione? Contattiamo i parenti prossimi, figli e fratelli, e li invitiamo a sottoporsi a dei test perché potrebbero condividere con il defunto il gene BRCA1?
Questo è il problema che sta affrontando una ricercatrice americana, Gloria Peterson, come descritto in un articolo su “Science” intitolato “Divulging DNA secrets of dead stirs debate” e firmato da Jennifer Couzin-Frankel.
E’ un serio problema di bioetica perché la diffusione dei dati genetici si scontra con la privacy e può essere fatta solo con il consenso esplicito del paziente. Ma se questo è morto come ci si comporta? E’ legittimo utilizzare i dati in nostro possesso per cercare di salvare la vita ai suoi congiunti?
Gloria Peterson sta affrontando queste domande grazie ad un finanziamento di 2,4 milioni di dollari dal National Cancer Institute avvalendosi dell’aiuto di Susan Wolf, professore di diritto e di bioetica presso l’Università del Minnesota.
Negli Stati Uniti , quando una persona muore il suo esecutore testamentale ha accesso alle informazioni sulla sua salute. Se queste sono rilevanti per la salute dei sui familiari, su consiglio dei medici, può informare i parenti. Ma non è ancora chiaro cosa fare dei dati genetici ottenuti su genoma di volontari arruolati in studi di carattere scientifico.
Una via che alcuni centri di ricerca stanno esplorando è quella di chiedere direttamente al paziente se voglia o meno che i dati ottenuti dall’analisi del suo genoma vengano comunicati ai parenti dopo la sua morte. Ma come ci si comporta se il paziente, quando ha autorizzato l’analisi del genoma, magari anni prima, aveva espresso parere negativo alla diffusione dei dati? Come si risolvono i conflitti tra la volontà del defunto e la salute dei suoi parenti ancora in vita?
Alcuni cercano di tenersi fuori da questo tipo di problemi rendendo anonimi i campioni in modo da non poter più risalire ai familiari. Una vittoria della formalità della privacy sulla vita reale delle persone di cui il DNA, purtroppo, non tiene conto.