Il discorso sullo stato dell’Unione tenuto questa mattina, ora italiana, da Barak Obama, il quinto dell’attuale presidente democratico, ha una particolare importanza per capire gli andamenti complessivi della politica mondiale. Il motivo non è soltanto la constatazione che “tutto il mondo guarda all’America”, ma il fatto che oltreoceano si predispongono ineluttabilmente, prima che altrove, gli equilibri di potere che successivamente occorrono dappertutto.
Il tema dominante quest’anno è stato senz’altro il tratto fortemente ideologico che ha guidato tutto il ragionamento di Obama. Aumento del salario minimo, lotta a disoccupazione e disuguaglianze, riforma della legge sull’immigrazione e stop alla violenza delle armi: questi, in sintesi, gli obiettivi, enucleati con una convinzione non sempre convincente, incartata varie volte su velleità e demagogie tipiche di una retorica a tratti perfino stucchevole.
Con particolare intensità, Obama ha esposto il credo del progressismo internazionale, ancorandola appunto a una visione molto coerente e al contempo radicalmente massimalista, abilmente corroborata da singoli casi personali portati a conferma del loro valore.
Innanzitutto, l’investimento sul salario minimo. Dal punto di vista obamiano quest’obiettivo costituisce un passo essenziale nella realizzazione piena dell’idea di democrazia. Perciò, non soltanto sono stati elogiati quegli imprenditori che spontaneamente la applicano già ai propri dipendenti, ma è stato proposto un intervento diretto dello Stato e della politica in questa direzione. La giustificazione illustrata è di tipo sociale, ossia di sopravvivenza individuale. La risposta deve essere conforme all’adagio: “Se la sfortuna colpisce, non si può rimanere senza niente”.
Tale assunto collega la proposta del salario minimo alla questione più generale della lotta alla disoccupazione, a favore cioè di maggiori garanzie per i ceti meno abbienti. In realtà, la politica delle garanzie pubbliche sanitarie, tenacemente perseguita da Obama nel primo mandato, è perfettamente in linea con questa nuova parola d’ordine data adesso sull’eguaglianza economica. Nella logica democratica vuol dire che lo Stato deve partire dal basso per garantire attivamente, attraverso il sostegno all’indigenza, la ripresa economica e la politica di sviluppo, salvo omettere poi che i finanziamenti è necessario prelevarli dall’alto, sottraendo investimenti potenzialmente produttivi alla società.
Gli ultimi due temi del discorso sono stati dedicati, invece, alla politica estera e alla gestione delle spese militari. Gli Stati Uniti devono continuare ad abbandonare, in definitiva, l’assioma centrale dell’ideologia conservatrice, vale a dire la loro forte presenza di truppe in tutto il mondo. All’idea di nemico, Obama contrappone una politica costruttiva di amicizia. Alla presenza armata, egli preferisce la via della diplomazia.
La tiepida accoglienza delle parole di Obama da parte repubblicana era visibile, tra gli applausi di maniera, nei volti stessi dei deputati. Non che tali valori siano di per sé negativi o sbagliati, ma certamente egli ha tralasciato di considerare gli enormi problemi internazionali che in questi anni si sono associati alle super riforme democratiche.
Tanto per cominciare la mala gestione dei conflitti arabi, i quali hanno evidenziato come non sia stata la mancanza di diplomazia ma il disimpegno militare ad aver determinato l’instabilità nell’area orientale, da cui difficilmente se ne verrà fuori in pochi anni. Inoltre l’iniziativa a favore dei diritti civili, in particolare quelli dell’immigrazione, rischiano di chiudere in se stessa la forza culturale ed economica dell’Occidente, con aumenti di criminalità all’interno e perdita di garanzie umane all’esterno. Quest’ultimo è probabilmente lo spartiacque più netto che separa Obama dai conservatori, ma, ovunque, la sinistra dalla destra.
Nella sua opzione a favore di uguaglianza e redistribuzione del reddito come non vedere, ad esempio, l’accettazione che anche gli Stati Uniti devono contentarsi di essere una nazione come le altre, restringendo il raggio di azione delle proprie iniziative e l’espansione della propria visione politica ed economica, finendo, di fatto, per regalare a Paesi “diversamente democratici”, come la Russia e l’Iran, ruoli egemoni in passato inimmaginabili?
Ai repubblicani, a ogni buon conto, sembra aprirsi una grande possibilità già alle prossime elezioni di medio termine di novembre. Ovviamente, la chance non sta nel contrappore ai “buoni principi civili di Obama” i “cattivi interessi di guerra” o i cinici bisogni egoistici.
Al contrario, davanti all’ideologia dei diritti civili individuali e alla sensibilità radicalmente egualitaria e falsamente pacifista dei democratici, è importante che l’America torni a contrapporre i diritti naturali delle persone, i valori nazionali e culturali dell’Occidente, tornando a essere volano contro quei falsi ideali che stanno condannando gli Stati Uniti e l’Europa al completo fallimento.
Persona, famiglia, società e comunità sono valori inseparabili da una chiara affermazione democratica dei diritti umani, essendo gli ingredienti veri che permettono lo sviluppo solidale e la libertà autentica in ogni parte del mondo. Come non difendere, ad esempio, quei cristiani che in Stati illiberali combattono da minoranze eroiche, perdendo spesso la vita, per quei principi autenticamente umani di libertà e di dignità della persona della nostra civiltà? E’ possibile non farlo senza rinunciare alla libertà e alla democrazia?
In questo, il ragionamento di Obama è stato lucido e coerente, ma anche molto fragile. La sua idea di democrazia si fonda sulla libertà astratta d’individui pensati come monadi indistinte e non sulla natura sociale, concreta di persone legate tra loro da affetti e da sentimenti comunitari. E’ legittimo pertanto attendere la risposta, prima di tutto culturale, che i conservatori sapranno dare in tutto il mondo, iniziando appunto dagli Stati Uniti e dall’Europa.