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Moriremo democristiani? La sinistra si interroga su Renzi sotto lo sguardo di Pizzi…

Moriremo democristiani? “No, per ora. Almeno finché c’è il Pd. Baluardo contro i tentativi di far rinasce la prima Repubblica”. L’interrogativo e lo scenario che da tempo turba l’universo culturale e politico della sinistra ha trovato una risposta controcorrente nella riflessione di Giuseppe Vacca, presidente della Fondazione Istituto Gramsci e autore del libro “Moriremo democristiani? La questione cattolica nella ricostruzione della Repubblica” presentato nella sede dell’Enciclopedia Italiana.

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SCETTICISMO E PERPLESSITA’ SU RENZI 

Lo storico del pensiero politico, studioso dell’idealismo novecentesco e della genesi del marxismo in Italia oltre che della parabola del Partito comunista, ha focalizzato l’attenzione sulla “crisi della seconda Repubblica e delle sue narrazioni predominanti, povere e inadeguate rispetto alla rivoluzione filosofica, economia, sociale e politica neo-conservatrice avviata 40 anni fa. Una trasformazione epocale legata alla globalizzazione, che ha mutato per sempre la democrazia europea imperniata sui partiti nazionali”.

Il libro è stato scritto nel gennaio 2013, quando si aprivano scenari di vittoria elettorale travolgente dei progressisti “se solo avessero scelto di allearsi con le forze di centro”. A giudizio di Vacca sarebbe stato il preludio di una stagione costituente e dell’apertura del primo vero congresso del PD. Formazione che oggi, rileva, appare destinata a divenire “il partito delle primarie privo di popolo e delle motivazioni a iscriversi”. Al contrario di quanto accade nelle realtà imbevute di populismo e di “forze militanti e partecipate” come le nazioni dell’America latina. Molto dura la valutazione dell’operato di Matteo Renzi: “Un segretario non in grado di distinguere tra dirigere e comandare è un leader molto fragile e poco rassicurante”.

UN GESTO DI ROTTURA COMPIUTO PER AMORE DEL PD 

La visione critica espressa dal presidente dell’Istituto Gramsci trova consonanze nel ragionamento di Gianni Cuperlo, che negando prospettive di scissioni “per non ripetere le storie tragiche degli scismi ereticali della Chiesa” spiega così le proprie dimissioni dalla presidenza del Partito democratico: “Un gesto compiuto con serenità d’animo poiché era la scelta giusta, un atto d’amore per il PD che resta una grande ambizione e speranza frutto dell’incontro delle culture riformiste”.

L’esponente del Nazareno rifiuta di volere tornare indietro al punto di partenza dei DS, per non abbandonare la nuova leadership e generazione ascesa alla guida del PD con una legittimazione popolare incomparabile e chiamata a ricostruire il nostro paese immerso in una crisi profonda, antica e non solo economica. Crisi rispetto a cui – ricorda – la sinistra degli ultimi anni non è riuscita a trasmettere un messaggio di riforma, al contrario di quanto riuscì a realizzare 95 anni fa Luigi Sturzo con l’appello “Ai liberi e forti”, embrione del Partito popolare.

UNA VISIONE ALTERNATIVA DI PARTITO

La carenza principale del Partito democratico, ne rimarca l’ex presidente, risiede nella mancanza di un fondamento etico e culturale robusto: “Valori netti potenzialmente conflittuali come l’eguaglianza e la scelta di campo a favore delle classi sociali più disagiate sono stati confinate nella sfera retorica con le formule del partito post-ideologico e post-identitario di Walter Veltroni. E così il PD si è trincerato nel mito gestionale del programma e nel recinto istituzionale”. Un partito politico, osserva Cuperlo, non può essere un cartello, coalizione, alleanza elettorale fondata sulla figura del leader e su un decalogo di proposte elaborate da un gruppo brillante di esperti la cui missione si risolve nella competizione per il governo. Un partito, evidenzia, è comunità di militanza immersa nello spirito del tempo e in grado di mobilitare corpi sociali intermedi che arricchiscono la democrazia.

A giudizio del parlamentare progressista, così come configurato con Renzi il Partito democratico non risponde a quell’orizzonte politico: “Non riconosce il pluralismo interno, l’autonomia e dignità dell’interlocutore nonostante abbia impresso grande accelerazione al percorso di riforme istituzionali ed elettorale”. Un profilo ben diverso – conclude – dalle leadership politiche della prima Repubblica, in grado di svolgere una funzione pedagogica anche nella solennità, autorevolezza e moderazione del linguaggio rispetto alle masse popolari: “Aliene dal lessico incendiario e rozzo dei protagonisti della seconda Repubblica, che alimentano e accarezzano gli istinti viscerali dell’opinione pubblica”.

LE RIVENDICAZIONI DC DI CASTAGNETTI

Apprezzamento che viene messo in risalto da Pierluigi Castagnetti, figura di spicco del Partito popolare rinato nel gennaio 1994. L’ex segretario del PPI ricorda l’attenzione riservata da Vacca al mondo e al pensiero cattolico e allo stesso magistero di Benedetto XVI, “il più autorevole intellettuale politico europeo impegnato nell’unificazione spirituale del genere umano”. Pensiero che trova un legame diretto nella denuncia di Papa Francesco contro la “filosofia dello scarto” e la “globalizzazione dell’indifferenza” che ha egemonizzato l’economia degli ultimi decenni.

Un punto di vista coerente e controcorrente che deve coinvolgere la politica. Partendo dal riconoscimento del ruolo e dei meriti storici della formazione cardine della prima Repubblica, “la Democrazia cristiana di cui Palmiro Togliatti fece fatica a capire la natura popolare e nazionale, non clericale né borghese, capace di ‘far amare lo Stato’ dai propri elettori grazie alle scelte atlantiche ed europeiste di Alcide De Gasperi”. Ma il riconoscimento di un patrimonio oggi ampiamente condiviso, puntualizza l’ex parlamentare, è giunto tardi, con Enrico Berlinguer, nella cultura politica marxista e post-comunista visto che il “Migliore” preferiva interloquire con il Vaticano privilegiando un “confronto tra Chiesa e Chiesa”. Al contrario del Partito socialista di Pietro Nenni, che seppe cogliere il valore specifico della DC costruendo il primo centro-sinistra.

LA MESCOLANZA FALLITA NEL PD

Però sono state le culture e tradizioni democratico-cristiana e post-comunista a creare il Partito democratico, “formazione nata in modo improvvisato senza un processo di maturazione profonda”. È a questo peccato originale che va imputata la mancata integrazione dei due filoni pur in assenza di divergenze ideologiche. Da un lato, spiega Castagnetti, una cultura progressista protesa verso l’egemonia della società che non si traduce automaticamente nella conquista del governo; dall’altro una visione cattolico-popolare che parte dalla società e delle sue articolazioni per interpretarle e mediarle in chiave politica. Due modi di leggere lo stesso PD, “che Renzi finisce per esasperare, nonostante in ogni iniziativa tragga spunto dalla realtà”. È qui, forse, il fossato culturale e generazionale che separa l’ex fautore della Rottamazione dai suoi avversari di ieri e di oggi.



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