Il bello: un antico concetto nell’Ellade che stava ad incarnare la predisposizione dell’animo umano per la bellezza. Benzina per avviare un percorso, icona di un un mondo nuovo ed efficiente, simbolo di una cultura ed una civiltà, quella Mediterranea, che è punto nativo del mondo.
Fin dalla Antica Grecia “il bello” era considerato come il pan della riflessione; il punto non era dire esplicitamente ciò che era bello e ciò che non lo era, ma, come diceva Platone stesso, definire “cosa è il bello”.
Per Platone la bellezza doveva essere atemporale, perfetta e per questo era parte costitutiva delle Idee: l’origine di tutte le cose. Quanto spazio c’è oggi per il bello nell’Italia -patrimonio dell’umanità- che non ha saputo valorizzare adeguatamente la propria cultura?
Guardare alla cultura italiana come a una risorsa industriale formando manager della cultura da impiantare nei ministeri e far fruttare l’immenso patrimonio italiano, per far tornare l’Italia al primo posto delle mete turistiche mondiali (siamo dietro Francia e Cina). Immaginare il turismo culturale come una molla su cui edificare il tessuto occupazionale che oggi non trova sbocchi e come un doppio investimento: che arricchisce in quanto cultura nel solco dell’abitudine ellenica della formazione dei paedià e che produce pil.
L’obiettivo deve essere quello di sviluppare non solo una forma di cultura dal basso che incarni l’essenza stessa del patrimonio italiano, ma che finalmente rompa un assurdo tabù: che con la cultura non si “mangi”. Quando invece, proprio attraverso il dna del nostro Paese, è possibile arricchire l’offerta verso l’esterno e al contempo investire in un progresso qualitativo interno. E farlo nel bicentenario della nascita di Giuseppe Verdi, avrebbe un sapore diverso, alto.
Gli investimenti pubblici nella cultura, soprattutto in un Paese come l’Italia, sono un vero moltiplicatore della ricchezza nazionale: l’industria culturale e della creatività forma il 4,9% del Pil, occupa 1.400.000 persone (il 5,6% del totale) e coinvolge 400.000 imprese. Nel 2010, a fronte di una spesa di 1,8 miliardi euro nel settore, il ritorno in termini di Pil è stato di 39 miliardi euro. Con questo moltiplicatore, se si investissero ogni anno almeno 5 miliardi (la media degli altri grandi Paesi europei è di circa 6,5 miliardi), il guadagno sarebbe vicino ai 100 miliardi.
Ma il nostro è un Paese troppo pigro, che spesso ha avuto perfino timore di ricordare a se stesso cosa ha rappresentato, e in che misura, per la cultura mondiale. Un dato che, altrove, sarebbe stato valorizzato e sul quale sarebbe stato costruito un intero sistema di reti e percorsi. Ecco che allora, servono azioni concrete da intraprendere. Perché, ad esempio, non costituire in Italia periodiche conferenze mondiali sulla cultura? Come a Davos si tiene il forum mondiale dell’economia, in Italia si potrebbe tenere il forum mondiale della cultura. Un’occasione per l’Italia di distinguersi a livello mondiale. Inoltre si dovrebbero razionalizzazione gli strumenti di promozione del turismo.
La governance del settore in Italia prevede un groviglio di competenze a livello nazionale e periferico, per un totale di 7.500 assessorati comunali al turismo e di oltre 13.000 enti che lo promuovono. Sul modello di Atout France, andrebbe rafforzata l’agenzia governativa per la promozione dell’immagine dell’Italia all’estero e per la crescita delle imprese del comparto.
Inoltre, è necessario radicare nelle amministrazioni competenze idonee a valorizzare le specificità dei territori e a scoprire le leve della loro competitività, anche al fine di calibrare le risorse sempre più scarse. Abbattere il monopolio statale nella gestione dei monumenti e dei siti più importanti: allo Stato potrebbe essere lasciata la funzione di stabilire standard di conservazione e il controllo del loro rispetto, ma la gestione andrebbe aperta agli enti locali e a chiunque dimostri competenze, organizzazione e voglia di assumersene il rischio.
Una sorta di vademecum da affiancare alla proposta “pro” cultura. Da inserire magari in quell’agenda di cose da fare che non può più essere ritardata. Non comprenderlo sarebbe come firmare una resa definitiva per un Paese che, invece, necessita di uno scatto in avanti.
Ma guardando ad altri esempi ecco che il caso greco è lì, maledettamente vicino a noi, ad indicarci che quando ci si dimentica della cultura, quando la si ripone in un vecchio e polveroso scatolone, quando la si delegittima guardando invece a falsi modelli, ecco che da quel delitto il sangue della cultura sgorga e si trasforma in crisi: sistemica, economica, sociale.
Tipico è il caso ellenico dove oggi, dopo trent’anni di politiche suicide che non hanno valorizzato quello straordinario patrimonio culturale, ecco che il mancato sfruttamento di quel tesoro porta ad un crollo. Con una sorta di idratazione e alimentazione forzata perpetrata dalla troika verso un paziente, l’Ellade, che non si risveglierà.
Nella Grecia di fatto già al default che gli euroburocrati insistono nel voler salvare caricandola di altri infiniti debiti, accade che la cultura, l’arte, il bello, siano oggi trascurati colposamente sotto i colpi di leggi e memorandum. L’Oracolo di Delfi chiude incredibilmente a mezzogiorno, al pari del Partenone perché i tagli praticamente a tutti i comparti dello stato hanno ridotto sensibilmente impiegati e custodi. Lasciando mano libera a trafficanti di reperti, contrabbandieri, vandali.
Accendere la luce anziché maledire il buio. Il santuario di Epidauro, in età ellenica, divenne il centro per eccellenza dedicato al culto di Asclepio, divinità salutare del pantheon greco, che guariva i fedeli che si recavano in pellegrinaggio ad Epidauro durante le feste in suo onore, denominate Asclepiei. Le guarigioni dei fedeli avvenivano in un edificio detto Abaton (‘impenetrabile’): prima di accedervi, infatti, il pellegrino doveva aver compiuto le lustrazioni di purificazione necessarie.
Alla politica italiana, prima di tornare a produrre idee, serve purificarsi. E ripartire dalla cultura.
Giorgio La Pira, ebbe a dire che “nel destino del Mediterraneo, la tenda della pace”. Quasi a voler intendere che la risposta è nel mare nostrum, non per una volontà romantica o per un tentativo meridionalistico di risolvere i nodi. Bensì perché fisiologicamente non può che essere quello il baricentro di un continente che lì ha il suo concetto di bellezza. E che purtroppo per la smania di numeri e trend, sta perdendo la meta più preziosa: una visione culturale che contribuisca ad un nuovo Rinascimento euromediterraneo.
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