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Poste Italiane, la guerra latente dei partiti alla privatizzazione

Un gigante industriale detenuto dal Tesoro, direttamente o tramite la Cassa depositi e prestiti. Una galassia produttiva che ingloba banca, servizi finanziari, assicurazioni, telefonia mobile, provider Internet, logistica, corriere, recapito. Il più grande datore di lavoro in Italia con 145mila funzionari, 400 miliardi di risparmi raccolti, 13 miliardi di premi assicurativi sulla vita. Conglomerato più diversificato rispetto alla “consorella” tedesca, Poste Italiane fattura oltre 24 miliardi di ricavi e 1 miliardo di utili ogni anno.

Il governo vuole promuovere entro il 2014 una vendita parziale del colosso pubblico mettendo sul mercato il 40 per cento delle azioni e puntando a guadagnare 4,8 miliardi. Un tipo di privatizzazione che anche su Formiche.net ha alimentato le riflessioni di esperti e che ieri è stata illustrata dal vice-ministro per lo Sviluppo economico Antonio Catricalà in Commissione Trasporti della Camera dei deputati.

COME PRIVATIZZARE

L’iniziativa, che rientra nel programma di collocazione sul mercato del capitale di gruppi imprenditoriali di Stato, non prevede nessuno “spezzatino dei rami aziendali”. La notevole diversificazione dei servizi, l’integrazione delle piattaforme, la valorizzazione del prodotto – ha spiegato l’esponente dell’esecutivo – richiedono il mantenimento dell’unitarietà di Poste. Pertanto la privatizzazione riguarderà porzioni del capitale azionario e non asset produttivi. Le forme concrete di vendita – quotazione in Borsa o alienazione con trattativa diretta – verranno stabilite dal Comitato per le privatizzazioni presso il Ministero dell’Economia e Finanze. Controllo e maggioranza proprietaria resteranno in ogni caso in mano allo Stato. Mentre le risorse derivanti dalla cessione saranno destinate al miglioramento e ampliamento dell’offerta di servizi e al fondo di riduzione del debito pubblico.

LA CONVENZIONE CON LA CDP

Tema nevralgico è il rapporto di Poste con Cassa depositi e prestiti. Come messo in rilievo da un articolo pubblicato sul Corriere Economia di lunedì scorso, l’azienda di spedizione e recapiti vende nei propri sportelli i prodotti di CDP come libretti e buoni fruttiferi. Per retribuire questo servizio l’istituto finanziario presieduto da Franco Bassanini versa ogni anno una quota, 1,6 miliardi nel 2012. La convenzione finora è stata annuale ed è scaduta il 31 dicembre 2013. È per tale ragione che l’amministratore delegato di Poste Massimo Sarmi, in vista della vendita parziale ha chiesto per i prossimi tre anni la garanzia statale di circa 5 miliardi come compenso complessivo per la gestione e la raccolta del risparmio postale. L’accordo, rileva Catricalà, è in corso di rinegoziazione. Ma un dato è certo: “I contenuti devono essere inseriti in un contratto pluriennale”.

LAVORATORI AZIONISTI

Altro punto qualificante del progetto governativo è il via libera all’ingresso dei lavoratori di Poste nel capitale aziendale. Ai dipendenti, ha spiegato l’ex presidente dell’Antitrust, saranno riservate gratuitamente azioni per un’entità da definire. L’esecutivo guarda a esperienze internazionali “che hanno coinvolto e responsabilizzato i lavoratori nella migliore gestione industriale”. Un modello effettivamente seguito da 5 operatori postali europei su 6 quotati in Borsa: la portoghese Ctt che ha ceduto azioni a sconto per il 5 per cento del capitale, l’inglese Royal Mail con il 10 di quote gratuite, la belga Bpost con lo 0,46, la tedesca Deutsche Post Dhl con il 6, l’austriaca Post con il 5,4.

LA POSIZIONE DEI SINDACATI

Ma un’innovazione così originale rischia di provocare una frattura tra le più rappresentative organizzazioni sindacali. A riprova di un’antica divaricazione culturale sul ruolo dei lavoratori in un’azienda e sui confini del rapporto tra management e maestranze. Mentre la CGIL conferma l’ostilità alla rappresentanza dei lavoratori nel consiglio d’amministrazione di Poste “poiché il rischio d’impresa va assunto dai manager”, la CISL ritiene che investire anche i lavoratori grazie a una quota proprietaria, seppur minoritaria, possa stimolare una maggiore produttività.

POLITICA OSTILE?

Un sentimento di opposizione e scetticismo verso il progetto di vendita parziale di Poste giunge, in modo apparentemente sorprendente e trasversale, da tutti i gruppi parlamentari.

Per bocca di Ivan Catalano il Movimento Cinque Stelle ha puntato il dito contro una cessione compiuta “per delegare a gruppi privati la gestione di complicate e impopolari vertenze amministrative e lavorative”. Ed evoca lo spettro della svendita di una realtà produttiva cruciale pari a quelle di Telecom e Alitalia, “che concorre a vanificare l’universalità dell’offerta e non contribuisce a risolvere il problema del debito pubblico”.

Sconfessando il richiamo ormai remoto a un orizzonte liberale-liberista, le forze del centro-destra sembrano ritrovare un terreno unificante. Forza Italia ha manifestato con Sandro Biasiotti molte perplessità sulla privatizzazione di un’azienda “che va bene perché gestita al 100 per cento dallo Stato”. E teme il ripetersi della vicenda Telecom con il controllo e gestione industriale da parte di gruppi privati detentori di una porzione irrilevante del capitale. Il Nuovo Centro-destra tramite Vincenzo Garofalo ha espresso l’esigenza di maggiore chiarezza sugli assetti di governance e chiede di valorizzare adeguatamente il capitale di Poste “per evitare l’ennesima spoliazione di industrie nazionali con finalità speculative”.

Fortemente contrarie le formazioni progressiste. Paolo Coppola del Partito democratico non riesce a capire come il semplice ingresso di un socio privato possa rendere più efficiente l’offerta aziendale. E la sua collega Romina Mura “anticipa lo scenario di privatizzazione di un servizio pubblico universale” denunciando il malfunzionamento dell’ufficio di smistamento di Poste, affidato in gestione a privati che hanno sostituito il personale qualificato con addetti generici. Mentre Stefano Quaranta di Sinistra e Libertà evidenzia le contraddizioni di una privatizzazione in antitesi con il ruolo di Poste nel capitale di Alitalia. E ricorda come lo stesso Sarmi fosse contrario alle strategie di vendita ai privati.

Critiche a cui Catricalà replica riconoscendo che “privatizzazione è una brutta parola ripensando a operazioni quali Telecom”. Ma ne rivendica il valore osservando che la vendita di quote minoritarie può esercitare una forza di attrazione per gli investitori di mercato, anche grazie agli stimoli derivanti da partnership pubblico-privata nell’azienda”.



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