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Tutti i dubbi dei liberisti sulla privatizzazione all’italiana di Poste

Le Poste nel mirino dei privatizzatori e sotto la lente dei liberisti. Non solo in Italia, dove oggi sarà presentato il decreto del presidente del Consiglio dei ministri che darà avvio al processo di privatizzazione che inizierà con il 40% del gruppo statale presieduto da Giovanni Ialongo e guidato dall’ad, Massimo Sarmi.

IL CASO BRITANNICO
Ma anche nel Regno Unito, un prezioso e recente precedente, dove dopo un lungo tira e molla con i sindacati il governo di David Cameron ha privatizzato oltre il 30 per cento di Royal Mail, incassando 3 miliardi di sterline. Per l’Economist la privatizzazione delle Poste – già affrontata totalmente o parzialmente in Paesi come Belgio, Germania e Austria – avrà un effetto benefico sulla compagnia, perché le darà accesso ai capitali privati, aumentandone la competitività. Royal mail necessitava secondo il settimanale economico di urgenti investimenti, soprattutto a causa di un cambiamento radicale dei servizi di posta dopo la rivoluzione di internet. Un aspetto al quale si affianca un minor peso dei sindacati nella vita politica del Paese.
Mentre il Financial Times ha chiamato questa operazione “storica” e ha scritto che si tratta di qualcosa che neppure Margaret Thatcher aveva avuto il coraggio di fare.

I LIBERISTI ITALIANI
Non differente l’approccio dei liberisti italiani che considerano l’attuale struttura verticalmente integrata di molte aziende sotto il controllo statale “incompatibile con la concorrenza“. Nel caso specifico di Poste Italiane – si legge in un paper del think tank Istituto Bruno Leoni -, la loro privatizzazione richiederebbe sia una riorganizzazione interna (con almeno lo scorporo di Bancoposta) sia riforme normative.
Per l’Ibl “la privatizzazione di Poste Italiane è certamente possibile e auspicabile, ma di non semplice realizzabilità, perché la sua natura conglomerale costituisce un ostacolo alla vendita immediata e integrale, che richiederebbe uno “spezzatino””.

COME PROCEDERE
Presupposto per la privatizzazione è dunque per il think tank liberista “una trasparente societarizzazione delle diverse attività – attualmente Bancoposta è separato dai servizi postali solo dal punto di vista contabile – con un chiaro ruolo attribuito alla rete degli uffici postali, vero asset strategico del gruppo attraverso cui vengono commercializzati prodotti e servizi”. Altri Paesi che hanno proceduto alla privatizzazione dell’operatore postale pubblico, che presentavano però un business postale in forte attivo, hanno creato un sistema di governance con una rete di uffici postali separata dalle società di business che commercializza, non necessariamente in esclusiva, i prodotti e i servizi di tali società.
Tale soluzione non implicherebbe la trasformazione di Bancoposta in una banca tout court, evitando così per l’Ibl “il passaggio assai oneroso dei dipendenti degli uffici postali al settore bancario, e lascerebbe allo Stato la possibilità di sfruttare la rete postale per erogare propri servizi ai cittadini“.

LE INTENZIONI DEL GOVERNO
Un modello di privatizzazione, quello auspicato dal mondo liberista, differente da quello proposto dal governo. Nei giorni scorsi, il viceministro allo Sviluppo economico Antonio Catricalà aveva definito “plausibile” la quotazione di Poste entro l’anno, aggiungendo che “sarà privatizzato il 30-40% del gruppo e la maggioranza resterà allo Stato. Spetterà al Ministero dell’Economia decidere come ripartire le quote“, disse, aggiungendo che “è importante decidere di non fare uno spezzatino“. Una posizione in parte diversa rispetto a quando Catricalà era presidente dell’Antitrust.

I DUBBI DI LANZILLOTTA E DELLA VEDOVA
Per questo, due senatori liberali di Scelta civica Linda Lanzillotta e Benedetto Della Vedova, con una interrogazione al premier, al ministro dell’Economia e al ministro dello Sviluppo economico – pubblicata integralmente sul sito LeoniBlog.it -, hanno sollevato seri dubbi sulla sua compatibilità con l’apertura del mercato chiedendo come l’esecutivo “intenda evitare che una rendita monopolistica sia trasferita ad eventuali soci privati” e “intenda realizzare l’obiettivo di favorire l’azionariato dei lavoratori evitando che esso si traduca in una mera rappresentanza sindacale negli organi di gestione, ma si sostanzi nella effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’andamento e gestione dell’azienda“.

LE SPERANZE DI ROSSI
Rilievi condivisi, ma bilanciati da Nicola Rossi – economista, già senatore del Pd poi confluito nel gruppo misto, ex esponente di spicco dell’associazione montezemoliana Italia Futura, quindi presidente dell’Istituto Bruno Leoni, carica che di recente ha lasciato a Franco Debenedetti per tornare all’insegnamento universitario – che in una intervista rilasciata a Formiche.net ha spiegato che avrebbe “preferito che, nel caso di Poste, si dividesse il servizio postale dall’attività di intermediazione finanziaria. E che si desse al termine privatizzazione il suo significato autentico: cessione del controllo“. Ma rassegnato aggiunge: “Ma non arrivo al punto di dire che, stando le cose come stanno, sarebbe stato meglio non farne niente“.


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