Un modo per raccordare diplomaticamente quell’ircocervo di anime diverse e diversificate che convivono sotto le insegne del Pd, o il tentativo di ribaltare il tavolo e scoprire definitivamente le proprie carte? Del Job Act di Matteo Renzi si conoscono solo slogan e titoli, per cui, come osservato da queste colonne dall’economista Mario Seminerio, è utile concedergli il beneficio del dubbio, e attendere la sua completa articolazione. Ma il passaggio con cui il sindaco di Firenze vorrebbe tassare immobili e patrimoni (non rendite, ma denari) suscita qualche perplessità. E non solo fra i liberali di più stretta osservanza.
Il mantra su cui pareva voler ragionare il neo segretario del Pd era di operare una cesura netta con il blocco ideologico che, su tasse e lavoro, ha fino ad oggi monopolizzato l’attenzione di politici e analisti del Paese. Quindi una concertazione diffusa ma flessibile, rapporti solidi ma senza i lacci e i lacciuli che fanno fuggire all’estero gli imprenditori nostrani, una partecipazione agli ulti aziendali ma la libertà di decidere da entrambe le parti. Se accanto a questo scenario innovativo si allunga l’ombra di una tassazione maggiore, ecco che si incrina al contempo quel nuovismo che dovrebbe accompagnare Renzi in una avventura completamente diversa. Non solo per via di volti e braccia di interpreti altri rispetto a quelli del passato, ma soprattutto perché le contingenze sono drammaticamente mutate.
La ripresa industriale è lontana, la disoccupazione macina record inquietanti, l’ombra ellenica si fa minacciosa al pari dei “consigli” a Palazzo Chigi della troika. Per cui urge uno scatto nella direzione delle produttività che va sostenuta non con sussidi a pioggia ma con strategie mirate nei settori più pregnanti del made in Italy, dove la qualità e il manifatturiero italiano possono davvero fare la differenza. Più tasse e in una direzione “ideologica”, però, non sarebbe la risposta futurista alle mille domande che un oggi, stanco e affievolito, pone alla classe dirigente 2.0.
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