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Ripensando (a) Foucault

Alfonso Berardinelli, su “Il Foglio”, concludeva così una sua riflessione: “Secondo me, demolire le false fedi non è deprimente, è tonificante, perché una volta sgombrato il campo ognuno è lasciato a se stesso e può credere in quello che vuole”: già, è così, ma non per tutti: c’è chi ha bisogno di una fede quale che sia, e non vuole essere abbandonato e confrontarsi con il proprio sé, perché, potendo egli credere in ciò che vuole, va a finire che crederebbe alla morte e basta.

Ma il nodo richiede qualche altra precisazione, perché riguarda le questioni intrecciate del potere e del soggetto e perché tanti hanno tentato di scioglierlo. Uno di questi, che è stato prima “irrazionalmente” adorato e, poi, oltremodo criticato, è Michel Foucault, del quale si continuano a liquidare, spesso giustamente, le ricerche degli anni Sessanta e Settanta, ignorando, però, quelle degli ultimi anni di vita del filosofo, che morirà, non ancora cinquantottenne, nel 1984.

Giustizia vorrebbe che si smettesse di infilare il suo nome in mezzo a quella lista abusata di (post)strutturalisti e/o decostruzionisti e/o post-moderni, vale a dire di accostarlo a Jacques Derrida, a Gilles Deleuze, a Jean-François Lyotard, eccetera. Di Gilles Deleuze, per esempio, egli era amico, ma mi pare che le loro affinità, con ciò, possano considerarsi esaurite, e c’è da aggiungere che lo stesso Foucault dedicò molto impegno, durante i suoi ultimi anni di vita, allo studio dell’amicizia: filosoficamente intesa, alla maniera greca, che non esclude la distanza intellettuale incolmabile che può separare una coppia di amici. Circola una nota citazione di Foucault: “Il secolo che verrà sarà deleuziano”. Si omette, però, di citare anche la risposta che lo stesso Foucault si premurò di dare, al riguardo, durante un’intervista con M. Watanabe: “Mi permetta una piccola rettifica. Bisogna provare ad immaginare in quale clima di polemica si vive a Parigi. Mi ricordo molto bene in che senso ho utilizzato tale frase, che però va formulata così: attualmente – si era nel 1970 – sono davvero poche le persone che conoscono Deleuze, e solo pochi iniziati comprendono la sua importanza. Ma verrà forse il giorno in cui “il secolo sarà deleuziano”, dove però il “secolo” va inteso nel senso cristiano del termine, vale a dire l’opinione comune contrapposta agli eletti. Aggiungerò che tutto ciò non contraddice affatto che Deleuze sia un filosofo importante. Ma era comunque nel senso peggiorativo del termine che ho utilizzato la parola “secolo””. Bè, una rettifica niente male, no?

Andiamo al sodo: le uniche testimonianze della conversione filosofica dell’ultimo Foucault ci giungono dai corsi che egli, annualmente, teneva presso il Collège de France, e la cui pubblicazione, anche nella nostra lingua, è quasi terminata: se uno dei liquidatori di Foucault si prendesse la briga di leggerli, l’immagine del filosofo ne uscirebbe radicalmente mutata. Avevano smesso di frequentarli, quei corsi, i suoi adoratori più scalmanati, perché non riuscivano a capacitarsi di come egli avesse potuto abbandonare l’attualità, l’impegno politico, per dedicarsi a polverosità da eruditi quali la “cura di sé” greca, la “parresìa”, le “tecnologie del sé”, l’ascetismo… Pensavano che avesse smarrito il senno, o fosse diventato un bieco conservatore o, peggio ancora, un “cristianista”: si vadano a leggere le parole cariche di disprezzo che Judith Butler ha dedicato a questo ultimo, estremo, Foucault. Con un gesto, una giravolta filosofica, egli era riuscito ad allontanare tutte quelle scimmiette che avevano creato il suo culto, e che andavano ripetendo certe sue parole d’ordine. Uno come Michael Walzer, che ha dedicato a Foucault un ritrattino sarcastico e – secondo lui – definitivo, sarebbe costretto a rivedere le proprie posizioni, se desse un’occhiata a tutto ciò, e smetterebbe di considerare inutilizzabile tutto il lavoro del filosofo francese. (Se lo è, dobbiamo dire peggio di quello dell’americano: inutile).

Ma avevamo esordito con l’opinione di Berardinelli. La parabola foucaultiana si conclude in una pragmatica: come riuscire a fare ciò che voglio? Attraverso movimenti di liberazione del sé: innanzitutto, dicendo la verità, a me stesso, agli altri, apertamente, parresiasticamente. Ma una pragmatica negativa è altrettanto vitale: come riuscire a non fare ciò che vogliono che io faccia? “In ogni caso, quel che vorrei segnalarvi è il fatto che, quando ai giorni nostri constatiamo il significato, o per meglio dire l’assenza quasi totale di significato – e l’assenza di pensiero che così si manifesta – che viene attribuita a espressioni che pure ci sono estremamente familiari, che oggi impieghiamo correntemente, e che ritornano incessantemente nei nostri discorsi – come per esempio le espressioni “ritornare a se stessi”, “liberare se stessi”, “essere se stessi”, “essere autentici” e così via – ritengo non vi sia di che essere molto fieri degli sforzi attualmente compiuti per restaurare un’etica del sé. E allora, nella serie di tentativi e di sforzi, più o meno bloccati e chiusi su se stessi, per restaurare un’etica del sé, così come nel movimento che, ai giorni nostri, fa sì che ci riferiamo continuamente a tale etica del sé, ma senza però mai conferirle alcun contenuto, penso vi sia forse da sospettare qualcosa come una sorta di impossibilità, e precisamente l’impossibilità di costituire, oggi, un’etica del sé. Eppure, proprio la costituzione di una tale etica è un compito urgente, fondamentale, politicamente indispensabile, se è vero che, dopotutto, non esiste un altro punto originario e finale, di resistenza al potere politico, che non stia nel rapporto di sé con sé”.

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