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Terroristi, ‘cacciatori di uomini’ e non solo

Le unità di intelligence e le forze antiterrorismo del mondo intero dovranno presto preoccuparsi di salvare la vita degli animali in via d’estinzione, oltre che degli uomini? Sembra proprio di sì: a circa un mese dalla conferenza di Londra sul commercio illegale di animali selvatici, prevista per febbraio, si moltiplicano i rapporti che indicano come bracconaggio e caccia grossa siano sempre più utilizzati da cellule fondamentaliste e gruppi guerriglieri come fonte di finanziamento.
Il giro d’affari potenziale è enorme: secondo un rapporto dello Stimson Centre di Washington, l’industria del bracconaggio muove ogni anno 19 miliardi di dollari, su rotte che toccano l’Occidente, l’Africa e l’Asia orientale, grazie a una domanda proveniente soprattutto dalla Cina, dove corni di rinoceronte e avorio d’elefante sono usati a scopi medicinali ma anche ornamentali. Nessuna meraviglia,  dunque, che su questo business si siano lanciati gruppi come gli integralisti islamici somali di al-Shabaab, o i miliziani janjaweed attivi nel conflitto del Darfur e quelli che compongono il Lord Resistance Army del signore della guerra ugandese Joseph Kony.
Zanne di elefante e corni di rinoceronte provenienti da tutti gli angoli dell’Africa dove vivono queste specie minacciate, dunque, seguono ormai percorsi simili a quelli dei ‘diamanti di sangue’ che in passato arrivavano da Liberia, Centrafrica e Sierra Leone o dei minerali (oro, rame, coltan, cassiterite…) di cui ancora oggi è privato il territorio della Repubblica Democratica del Congo. Nel commercio illecito hanno un ruolo, secondo varie inchieste di ong e giornalisti, bracconieri locali, intermediari, ma anche componenti di eserciti regolari (il New York Times ha ad esempio sollevato, per quanto riguarda alcuni casi proprio in Congo, il sospetto di un coinvolgimento di elementi delle forze armate ugandesi oltre che di quelle locali).
Man mano che le ‘materie prime’ passano di mano, poi, il loro prezzo cresce: 50 o 100 dollari al chilo è la ricompensa per i cacciatori, ma per l’avorio il prezzo finale di mercato è di circa 3000 dollari/kg. Per non parlare dei  corni di rinoceronte, che sul mercato nero sono valutati anche più dell’oro e del platino. Secondo una stima dell’ong Elephant Action League, grazie a queste quotazioni, i soli Shabaab somali otterrebbero dal contrabbando il 40%  dei loro profitti, in media tra i 200 mila e i 600 mila dollari al mese.
Ecco dunque che la domanda su come evitare la mattanza diventa anche una potenziale questione di sicurezza globale: questo spiega proposte come quella del generale statunitense Carter Ham, che prima di andare in pensione ha tra l’altro guidato AFRICOM, l’alto comando Usa per il contenente africano. La sua idea è che la risposta al bracconaggio debba includere un’importante componente militare, magari con l’uso di aerei senza pilota, i droni; ma i rischi di un approccio ‘militare’ non sono pochi.
La Tanzania è uno degli Stati più colpiti dalla piaga dei cacciatori di frodo, e il porto di Dar es-Salaam, come quello kenyano di Mombasa, è anche in una posizione ideale per smistare i carichi di contrabbando. Nel Paese, tuttavia, l’azione della task force anti-bracconaggio nota come ‘Operazione Tokomeza’, lanciata ad ottobre 2013, ha dovuto essere quasi subito interrotta dal governo. I risultati sono stati innegabili (2 soli elefanti uccisi ad ottobre contro i 60 abbattuti dopo la sospensione, tra novembre e dicembre), ma – come ha confermato un’inchiesta parlamentare – sono stati accompagnati da gravi abusi sulla popolazione civile: torture, estorsioni, stupri e anche 13 omicidi. Uno scandalo costato il posto a quattro ministri.
Bisognerebbe dunque capire quali sono i fattori che consentono ai movimenti armati di appoggiarsi alle tradizionali reti di bracconaggio e far prosperare questo crimine. La povertà, certamente, gioca un ruolo: darsi alla caccia di frodo permette di guadagnare una cifra pari anche a 10 volte il salario medio in alcuni Paesi. C’è poi la domanda internazionale, e qui gli occhi sono puntati soprattutto su Pechino; di recente, il governo cinese ha – per la prima volta – pubblicamente distrutto diverse tonnellate di avorio contrabbandato. Un segno della consapevolezza crescente tra le élite economiche e politiche cinesi dell’impatto devastante che la caccia ai grandi mammiferi può avere sull’economia africana. Anche il turismo, infatti, ha un giro d’affari non trascurabile e, per un Paese che punta molto sul commercio e sugli investimenti diretti verso l’Africa, questo fattore non è da sottovalutare.

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