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Vi spiego perché non mi convince il referendum sul Fiscal Compact

Venerdì 10 gennaio gli economisti aderenti all’associazione “Viaggiatori in movimento” (nomina sunt consequentia rerum) si sono riuniti, insieme a giuristi e a personalità della politica, per dichiarare guerra al Fiscal compact…..in nome (sic!) dell’Europa e dell’euro. L’ipotesi esaminata è quella di sottoporre a referendum popolare quel trattato internazionale del 2 marzo 2012, sottoscritto da 25 su 27 Stati dell’Unione (con l’esclusione del Regno Unito e della Repubblica Ceca), ratificato dal Parlamento italiano con un’ampia maggioranza in ambedue le Camere e promulgato dal presidente della Repubblica il 23 luglio del 2012. Referendum abrogativo ci siamo chiesti? Ma come? Che fine ha fatto il secondo comma dell’articolo 75 della Costituzione che non ammette il referendum per le leggi tributarie e di bilancio, di amnistia e indulto, di autorizzazione a ratificare trattati internazionali?

MODIFICHE
Si vede che ormai anche la Carta Costituzionale – a suo tempo voluta rigida – è diventata una specie di Statuto Albertino che poteva essere modificato con legge ordinaria tanto da restare in vigore anche durante il Fascismo. Oggi, per introdurre modifiche sostanziali, non è richiesto neppure un atto legislativo: è sufficiente qualunque marchingegno di vaga legittimità purché risponda a quanto è ritenuto politicamente corretto. Si veda il pasticcio combinato dal ministro Graziano Delrio (i suoi predecessori non erano stati da meno) per abrogare le Province o si prenda in esame lo scempio che si vuole fare del Senato come se i legislatori costituzionali fossero ubriachi quando adottarono un modello di bicameralismo perfetto. Ma non divaghiamo; stiamo alla sostanza del problema.

ABOLIZIONE
I nostri “viaggiatori” vorrebbero abolire il Fiscal compact perché non ne ritengono possibile la esecuzione se non a prezzo di sacrifici insostenibili. Di che cosa si tratta? Sottoscrivendo il trattato gli Stati si sono impegnati a portare – pena l’erogazione di sanzioni – il debito pubblico sotto il 60% del Pil. Il che comporterebbe, per l’Italia, l’obbligo a dimezzare l’ammontare del debito, con quote di prodotto del 5% l’anno: un’operazione che, ad avviso dei “viaggiatori”, finirebbe per imporre una tassazione ancor più soffocante. A chi scrive non piace “viaggiare” ed è convinto che “fare movimento” (ricordate il grande Helenio Herrera?) nel contesto di una materia tanto delicata e sensibile (che ha comportato anche la riscrittura dell’articolo 81 della Costituzione per sancire l’equilibrio di bilancio) sia un grave errore, per tanti motivi. Innanzi tutto, per gli effetti che si avrebbero sui mercati internazionali nei confronti di un Paese “vigilato speciale” come l’Italia se all’improvviso si rimangiasse gli impegni assunti liberamente in materia di doverosa riduzione del debito. Ciò, in vista e nel bel mezzo di una campagna elettorale per il Parlamento europeo in cui le forze politiche più irresponsabili metteranno nel mirino l’Unione e l’euro soltanto per prendere voti.

RESPONSABILITA’
Se possiamo permetterci, da economisti, intellettuali e politici scafati ci aspetteremmo più senso di responsabilità. In secondo luogo, l’obiettivo di un tasso del 60% sul Pil, per quanto riguarda il debito, era incluso tra i “parametri di Maastricht”, che erano e rimangono – seppure un po’ ammaccati – i requisiti per la moneta unica: per entrare e per rimanere nel club. Molta acqua è transitata sotto i ponti da quando sono trascorse invano le scadenze previste (si pensi che il pareggio di bilancio doveva essere raggiunto una decina di anni fa). Non si può dire, allora, che l’Unione non si sia fatta carico della realtà e degli andamenti dell’economia, quando si è trattato di esigere il rispetto degli impegni alle loro scadenze. Ma sarà pur necessario fissare un altro percorso per rientrare nelle regole, se si intende ancora rimanere insieme? Tanto più che la Grande Crisi di questi ultimi anni non ha riguardato soltanto la finanza, prima, l’economia reale, poi. Negli ultimi anni (dopo che già nel 2010 si era invertita la tendenza al declino) la crisi ha investito gli Stati e il loro debito sovrano, in quanto è venuta meno, negli investitori, la fiducia nella loro solvibilità. Di qui il rischio dell’esplosione dei tassi di interesse e del default di alcuni Paesi – europei in particolare – con le relative conseguenze all’interno di sistemi tra loro interconnessi ed in competizione per l’intercettare quei capitali finanziari che si spostano tra le diverse aree del mondo alla ricerca dei rendimenti più convenienti. Così il risanamento dei bilanci pubblici non è stata una delle tante possibili opzioni che i governi avevano davanti a sé, ma la via obbligata per garantire anche la ripresa dell’economia, poiché non è dato avere sistemi economici attivi e prosperosi quando le comunità statuali vanno a gambe all’aria.

RIPRESA
Ecco perché i segnali di ripresa che ora si intravvedono anche nell’Eurozona (la più sofferente tra i 27 paesi della Ue) sono il frutto di un’azione di risanamento che i governi hanno portato avanti anche a costo di imporre dei sacrifici alle popolazioni interessate (ma quale sacrificio è più grave della bancarotta?). Il Pil nell’Eurozona è cresciuto di mezzo punto già nella seconda metà del 2013; il Portogallo è uscito dalla recessione nel secondo semestre; la Spagna nel IV trimestre. L’Irlanda è cresciuta dell’1,5% nel terzo trimestre; l’economia della Grecia, dopo 7 anni, avrà un segno positivo nel 2014. I tassi sui titoli di Stato sono tornati in media al livello del 2010. L’Italia, nonostante le incertezze del suo quadro politico, ha interrotto la fase discendente e potrebbe tornare a crescere, se restasse affidabile sul piano internazionale (intanto i risultati dello spread sono assolutamente apprezzabili). In sostanza, l’Europa e in generale il mondo sviluppato devono misurarsi con una sfida essenziale: combattere e debellare il debito pubblico con la stessa determinazione con cui, negli anni ‘80 del secolo scorso, si è affrontato e sconfitto il mostro dell’inflazione o due se non addirittura a tre cifre. Quella guerra fu vinta in un solo modo: attraverso il controllo dell’offerta reale di moneta che costituì la piattaforma portante delle politiche liberiste di quegli anni (privatizzazioni, liberalizzazioni dei prezzi, lotta alla statalismo, riforme del mercato del lavoro e del welfare). Anche allora si disse e si scrisse che queste politiche avevano richiesto degli alti costi sociali. Ma se si mette a dieta rigida una persona gravemente diabetica si fa il suo male o il suo bene? Tanto più che, quando sono in pericolo il benessere e la sicurezza economica di un popolo lo sono anche i suoi ordinamenti democratici.

PROTEZIONE SOCIALE
Oggi, sono quegli strumenti di protezione sociale che vennero fondati a ridosso della Grande Depressione del secolo scorso a rivelare la loro inadeguatezza a cogliere le sfide demografiche, occupazionali e dei mercati del lavoro e a divenire sempre più la causa della inaffidabilità degli Stati nei confronti di quanti detengono i titoli del loro debito sovrano. Così, le politiche pubbliche si rivelano impotenti a fronteggiare le nuove emergenze. Nessuno si interroga sui motivi per cui ad essere in declino sono i Paesi più ricchi e civili del mondo, mentre sono i Paesi emergenti ad offrire le uniche prospettive di ripresa del commercio mondiale (anche questa è un’altra significativa differenza in positivo rispetto alla crisi del 1929, quando questa parte del mondo non era protagonista dell’economia). Il fatto è che, per poter competere sui mercati globalizzati, non è più possibile garantire standard di diritti e di condizioni di lavoro come quelli conquistati, in Europa, in decenni di vita democratica. Non è un caso che la crisi si incarognisca nell’Eurozona ovvero nel novero delle nazioni in cui più avanzato è il modello sociale, mentre i Paesi dell’Est europeo – per i quali il dumping sociale è una risorsa almeno pari alle rimesse degli emigranti – sembrano più in grado di cavarsela, nonostante che a loro sia toccato di fare da sé nel confrontarsi con la crisi. I loro apparati sociali sono più leggeri e flessibili tanto da risultare molto più competitivi e convenienti sullo scenario internazionale. Il motore del Continente si sposta ad Est (è significativo che la Lettonia abbia chiesto l’ingresso nell’euro).

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