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Altro che D’Alema. Renzi a Palazzo Chigi assomiglia a…

Tutti (anche il sottoscritto) a rievocare Massimo D’Alema e quel cambio di premier in corsa, che ancora rappresenta il peccato originale della sinistra post comunista. Invece il precedente più calzante per un eventuale governo guidato da Matteo Renzi rischia di essere quello con Romano Prodi, premier disarcionato in quel ’98. Le differenze tra i due sono siderali, ma gli indizi di un comune destino politico ci sono tutti.

Renzi e Prodi sono entrambi leader popolarissimi tra gli elettori di sinistra, compresi quelli non ortodossi. Ma hanno subìto una crisi di rigetto da parte del corpaccio del partitone al quale in teoria appartengono, da sempre fedele ai “Compagni di scuola” descritti tanti anni fa da Andrea Romano. Oggi è più debole, ma lo zoccolo duro dell’apparato c’è, resiste negli enti locali e dentro il partito. Un passaggio elettorale avrebbe permesso a Renzi di normalizzare il Pd e farlo un po’ più suo, mettendo fine al congresso permanente che per una buona parte della sinistra rappresenta la normalità. Se andrà a Palazzo Chigi in questa legislatura, il suo governo dovrà fare i conti con tossine difficilmente smaltibili.

Terzo punto, Renzi, come Prodi, avrà una coalizione destinata a creargli più di un intralcio. In teoria la maggioranza c’è ed è già rodata da Enrico Letta. Ma le grandi intese (poi ristrette) sono ritagliate su misura del premier in carica. Il politico pisano ha scelto fin dall’inizio di mediare quasi tutto con i partiti che lo sostengono. Quello fiorentino ha forgiato la sua immagine su uno stile opposto, decisionista e accentratore. Se lo confermerà, dovrà affrontare gli eletti della 17esima legislatura, abituati a pesare su tutte le scelte chiave. Se si ammorbidirà, scontenterà i tanti che lo hanno scelto fino ad oggi e arriverà alle prossime elezioni più logoro che mai.

Se poi, come sembra, alla coalizione che sostiene il governo Letta, si aggiungeranno pezzi di Sel e del Movimento 5 stelle, i giochi si faranno più complicati. In economia dovrebbero convivere i moderati di Alfano con sostenitori della “decrescita felice”. Sul lavoro si andrebbe dalle posizioni di Maurizio Sacconi a quelle della sinistra Cgil. Sulle infrastrutture, immobilismo garantito dalla presenza dei transfughi del M5S, che renderebbero difficile anche la politica estera. Le privatizzazioni resterebbero un tabù in particolare quelle dei servizi locali. Sulla giustizia le ipotesi sono tre: o Alfano si rimangia dieci anni di politica, compresi quelli al ministero, o dovrà farlo la sinistra. Altrimenti non si toccherà nulla. Viste le premesse, il paragone con D’Alema sembra troppo generoso. Lui aveva una maggioranza omogenea sui temi che in quegli anni erano sul tappeto. Renzi, come il Prodi bis, no



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