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Bourdieu, l’ultimo dei francesi

Ricordo, a conferma dei sospetti avanzati da Alfonso Berardinelli, sul “Foglio”, la sopravvalutazione costante, incomprensibile, un po’ ridicola, di Pierre Bourdieu, salutato come una sorta di “nuovo Marx” – eddài, un altro… -, negli ambienti sociologici italiani dei quali ho avuto, purtroppo, un’esperienza diretta. A molti si illuminavano gli occhi, al solo sentir nominare il francese, ed erano pochi, invece, gli studenti che, come me, si guardavano attoniti e sfogliavano e risfogliavano il malloppo de “La distinzione. Critica sociale del gusto” (“il nuovo Capitale”? “Ça va sans dire”), alla ricerca di qualcosa che potesse giustificare quegli entusiasmi.

Non trovando alcunché, peraltro, se non quel di più di attenzione empirica che fa sdilinquire certi teorici, soggetti a sensi di colpa insanabili: vorrebbero utilizzare di più i numeri e meno le parole, ammirano chi ci riesce (“quelli sì che sono scienziati, mica noi…”). Da analista delle mode, d’altronde, Bourdieu seppe come crearne una, quella fondata sul suo nome, e beato lui, che è stato circondato, in vita, dall’ammirazione e dall’adorazione di migliaia di “academic groupies”.

Ma noi? “Pensiero critico”, “massa critica”: professoroni e professoressine non si riempiono la bocca, quotidianamente, di questi concetti-totem? Così, a naso, uno potrebbe sostenere, non andando lontano dal vero, che quello della moda d’abbigliamento sia il luogo culturale in cui minori sono i danni provocati dalla… moda.


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